Sapete come si smantella una nave?
In Europa ci sono regole molto severe per evitare danni ambientali e incidenti sul lavoro: ma con un sotterfugio i grandi armatori riescono ad aggirarle
di Paolo Bosso
Tra luglio e settembre, 113 navi sono state smantellate nel mondo. Di queste, la gran parte – 79, cioè il 70 per cento – sono state rottamate con lo “spiaggiamento”, una tecnica che esiste solo in Asia centrale, in particolare in India, Bangladesh e Pakistan, e che da tempo viene denunciata dalle associazioni ambientaliste da un lato come un metodo di smantellamento anacronistico, inquinante e pericoloso per la salute, dall’altro come una prassi a dir poco imbarazzante per gli armatori europei. Con questa procedura, infatti, le navi vengono trascinate su una spiaggia e smantellate all’aperto, a mani nude; gli operai si muovono su una battigia contaminata da metalli nocivi per la salute come il piombo e l’alluminio, rischiando infortuni anche mortali.
La vicenda è imbarazzante perché lo spiaggiamento è illegale in Europa e la maggior parte delle navi demolite in questo modo sono state costruite e gestite per decenni da compagnie marittime europee, prima di essere vendute a società che pagano subito, cambiano bandiera alle navi con una di comodo e le spediscono in Asia per rottamarle. Delle 13 navi smantellate negli ultimi tre mesi, infatti, i principali armatori sono statunitensi, greci e indiani – con circa 10 ciascuna – seguiti da compagnie tedesche e singaporiane.
In Asia dall’inizio dell’anno i morti collegati allo smantellamento delle navi sono stati 24 e 9 i feriti, e la maggior parte vengono da Alang, in India, uno dei centri di smantellamento per spiaggiamento più grandi al mondo. Ad agosto, sempre ad Alang, c’è stato un morto al Shri Gaitam Shipbreaking Yard; quattro giorni dopo altri due allo Honey Shipbreaking (di proprietà RKB Group) mentre tagliavano la nave da crociera Ocean Gala, precedentemente nota come Scandinavia e Island Escape, approdata in decine di porti europei, inclusa l’Italia, quando navigava.
A Gadani, in Pakistan, a luglio si è sviluppato un incendio a bordo di una petroliera della tedesca ADA. «Questo tipo di incidente avrebbe potuto essere evitato se il divieto di smantellamento delle petroliere, in vigore dopo una serie di incidenti nel 2016 e 2017, non fosse stato revocato ad aprile 2018», spiega la ong Shipbreaking Platform. A Chittagong, in Bangladesh, altro grande polo di demolizione per spiaggiamento, la situazione in questi tre mesi è stata un po’ migliore – per via della stagione dei monsoni e anche per le pressioni delle autorità locali e dei sindacati – ma a dicembre dello scorso anno lo smantellamento di tre navi da crociera utilizzate da decine di migliaia di europei e americani per le vacanze ha portato alla morte di una persona per caduta.
Alla fine di agosto una nave norvegese, Harrier, dopo essere stata bloccata mentre navigava senza permessi verso un centro di demolizione in Pakistan, è stata dirottata dalle autorità per essere smantellata in Turchia, ad Aliaga. Prima di approdare lì, però, ha lasciato una scia di petrolio lunga 2,5 chilometri all’altezza di Smirne. A giugno la Nordic American Tankers, compagnia marittima quotata a Wall Street, ha ceduto 8 navi per 80 milioni di dollari: 3 sono finite ad Alang e 5 a Chittagong. Secondo fonti locali, il taglio delle lamiere è iniziato senza il permesso dell’ente governativo responsabile della gestione di materiali pericolosi.
Nessuna di queste navi batte bandiera europea quando viene demolita così: le infrazioni e le multe sarebbero gravissime. Ma nella maggior parte dei casi, europei ne è stato per decenni il proprietario e il gestore. Tutte le navi vendute nei tre principali centri di spiaggiamento asiatici, prima di essere spedite lì passano per mano di “commercianti di rottami” che agiscono come cash buyer, cioè comprano pagando immediatamente, senza dilazionare. Poi registrano la nave con una nuova bandiera e la spediscono in Asia. Nella parte finale delle loro vite, quindi, più della metà di queste navi battono bandiera di Stati come Comore (Africa), Niue (Oceania), Palau, St Kitts and Nevis, quasi mai utilizzate dalle compagnie marittime durante la vita commerciale.
La norma che stabilisce come demolire le navi per gli Stati europei è il regolamento 1257/2013, che segue la Convenzione di Hong Kong del 2009 dell’International Maritime Organization (l’IMO, organismo dell’ONU che legifera su navigazione e sicurezza in mare), aggiornata costantemente con linee guida. Il regolamento stila un elenco di impianti di riciclaggio in cui le navi battenti bandiera di uno Stato membro devono essere demolite. I cantieri di demolizione navale di tutto il mondo possono richiedere di essere inclusi in questa lista, non escludendo a priori quelli che demoliscono su una spiaggia, ma la Commissione europea ha pubblicato ad aprile 2016 una guida tecnica che rende estremamente difficile il riconoscimento per questi stabilimenti di demolizione. Se le navi possono cambiare bandiera subito prima delle demolizione, però, gli armatori preferiranno sempre risparmiare: e si continuerà ad aggirare queste limitazioni.
Circa due anni fa una delegazione dello European Community Shipowners’ Association (ECSA), l’ente che rappresenta gli armatori d’Europa, ha visitato Alang e ha detto goffamente che la Commissione europea dovrebbe modificare il regolamento 1257/2013 pur di includere Alang nei centri di demolizione autorizzati. La ragione della richiesta risiedeva nel fatto che gli stabilimenti di Alang avevano ottenuto da poco certificati IMO e Rina per soddisfare i requisiti della Convenzione di Hong Kong. Ma la missione – svolta senza neanche un sindacato o una ong, criticata dagli assenti come una “brochure di promozione” – è stata un autogol, visto che la zona in realtà è ancora molto lontana dagli standard di sicurezza a cui sono abituati gli occidentali (e intanto il comunicato di ECSA sulla missione non è più visibile sul sito dell’associazione).
Come è stato ribadito più volte dagli organismi di monitoraggio, l’Europa ha tutto lo spazio e la capacità di smantellare le proprie navi, soddisfacendo pienamente la domanda di mercato. Il problema è che smantellare navi con gli standard occidentali costa parecchio, mentre ad Alang, come a Chittagong o a Gadani, costa invece molto poco.
In questa situazione piratesca, dove basta un cambio di bandiera per far sparire il legittimo responsabile dello smantellamento in sicurezza e sostenibile di una nave, una legislazione navale prevalentemente basata proprio sulla bandiera mostra la sua “tossicità”, essendo usata in questo caso come strumento per camuffare i doveri e smantellare nel modo più economico e pericoloso che ci sia. Secondo la ong Shipbreaking Platform (SP), questo opportunismo «dovrebbe suscitare una serie di preoccupazioni sull’efficacia di una legislazione basata solo sulla giurisdizione dello Stato di bandiera».