Il reattore nucleare siriano visto dall'alto

«Arizona»

La storia da film dell'operazione militare con cui Israele nel 2007 distrusse un reattore nucleare in Siria, rimasta semi-segreta fino a pochi giorni fa

Alle 22.30 del 5 settembre 2007, quattro F-15 e quattro F-16 armati con diversi tipi di bombe decollarono da alcune basi aeree nel sud di Israele, diretti verso la Siria orientale. Entrarono nello spazio aereo siriano arrivando dal Mar Mediterraneo mantenendo una bassa altitudine, un centinaio di metri da terra, per evitare di essere intercettati dai radar. La regola era: nessuna comunicazione e silenzio radio assoluto, anche tra un aereo e l’altro. Verso le 00.40 di quella notte gli F-15 ed F-16 israeliani raggiunsero l’obiettivo: una struttura apparentemente abbandonata nella regione siriana di Deir Ezzor, chiamata dagli israeliani “il Cubo”. Sganciarono le bombe, due ciascuno, si assicurarono di avere distrutto l’obiettivo e tornarono in Israele.

Verso le 00.45 il silenzio radio fu interrotto per un attimo: il pilota di uno degli F-16 trasmise un solo messaggio diretto a Tel Aviv: «Arizona». Era la parola pattuita per confermare che tutto era andato per il meglio e che l’obiettivo era stato distrutto. Stava per finire una delle operazioni militari segrete di maggiore successo della recente storia di Israele, di cui però in Israele nessuno ha parlato negli ultimi 11 anni: la distruzione di un reattore nucleare costruito segretamente dal governo siriano di Bashar al Assad in collaborazione con la Corea del Nord. Il reattore avrebbe dovuto produrre il plutonio necessario per la costruzione di una bomba nucleare.

Dal 2007 fino a mercoledì il governo israeliano ha imposto ai media nazionali il divieto di parlare dell’operazione, nonostante il suo successo: c’era di mezzo la sicurezza nazionale e un complicato ragionamento che ruotava attorno alla possibile risposta del governo siriano. L’attacco era stato raccontato parzialmente da alcuni giornali internazionali ma i dettagli di quella notte, di tutto quello che era successo prima e che sarebbe successo dopo, sono finiti sulla stampa israeliana solo negli ultimi giorni. È una storia incredibile iniziata quattro anni prima con un enorme fallimento dell’intelligence israeliana nella Libia di Muammar Gheddafi.

La scoperta del reattore nucleare “il Cubo”
«Il 19 dicembre 2003, un sabato mattina, accesi la radio e sentii da un notiziario che gli americani e i britannici avevano persuaso la Libia a smantellare il suo programma nucleare», ha raccontato ad Haaretz Amnon Sufrin, allora capo della divisione di intelligence del Mossad, i servizi segreti per l’estero di Israele. «La mattina dopo convocai i miei collaboratori e dissi loro che avevamo fallito due volte: non avevamo alcuna idea che esistesse in Libia un programma di quel tipo, e non sapevamo che da otto mesi erano in corso dei negoziati per smantellarlo. Iniziammo ad analizzare il programma nucleare libico e cercammo di capire in quali altri posti della regione potessero essere stati avviati progetti simili».

Dopo un mese e mezzo di ricerche, la divisione d’intelligence del Mossad compilò un documento che diceva che qualcosa di simile stava succedendo in Siria. Fu individuata in particolare una strana struttura a forma di cubo nella regione di Deir Ezzor, meno di un chilometro a ovest del fiume Eufrate: era completamente isolata, costruita nel mezzo del deserto, apparentemente senza uno scopo. Parte dell’intelligence israeliana cominciò a ipotizzare che potesse contenere un reattore nucleare, anche se c’erano molti dubbi: per esempio non c’erano segni della presenza di batterie anti-aeree, che avrebbero potuto bloccare un attacco di uno stato nemico, né altre misure per garantire la sicurezza della struttura. Che si dovesse continuare a indagare, però, emerse anche da un documento prodotto da un ricercatore dell’intelligence militare israeliana, che sostenne che il governo di Assad stava costruendo un reattore nucleare. Ma non c’erano prove solide e i vertici delle intelligence, tra cui il capo del Mossad, Meir Dagan, rimasero scettici.

Nei primi mesi del 2007 successero però due cose che cambiarono tutto. A gennaio alcune foto satellitari mostrarono l’esistenza di un condotto che collegava “il Cubo”, come intanto era stata soprannominata la struttura, al fiume Eufrate: il condotto, cominciarono a pensare Mossad e intelligence militare israeliana, poteva essere un modo per garantire un sistema di raffreddamento al reattore nucleare.

La vera svolta arrivò però all’inizio di marzo, durante una visita a Vienna, in Austria, del capo della Commissione per l’energia atomica siriana, Ibrahim Othman. L’episodio fu raccontato per la prima volta dal giornalista americano David Makovsky sul New Yorker nel 2012 e poi ripreso e arricchito da altri giornali. Durante la sua visita, mentre partecipava a una conferenza internazionale, Othman lasciò incustodito per qualche ora il suo computer personale. Un gruppo di agenti scelti del Mossad entrò nell’appartamento dove alloggiava Othman e in pochissimo tempo scaricò tutte le informazioni contenute nel computer: tra le altre cose furono trovate 35 fotografie che mostravano l’interno del “Cubo” e che non lasciavano dubbi che la struttura fosse un reattore nucleare. Le immagini mostravano come la costruzione del “Cubo” fosse quasi completa. Nel giro di poco tempo il reattore sarebbe entrato in funzione per arricchire il plutonio, processo fondamentale e indispensabile nella costruzione dell’arma nucleare.

«Fu la più grave violazione della sicurezza nazionale nella storia della Siria», ha scritto Haaretz, riferendosi alla negligenza di Othman: non lasci il tuo computer incustodito se hai dei file come quelli.

Gli americani e lo scontro nel governo israeliano: cosa fare?
La scoperta del reattore nucleare siriano non arrivò in un grande momento per Israele. L’anno precedente, nel 2006, si era combattuta la Seconda guerra libanese tra Israele ed Hezbollah, gruppo estremista sciita libanese alleato della Siria e dell’Iran. Il primo ministro israeliano di allora, Ehud Olmert, aveva ottenuto l’incarico all’inizio del 2006 promettendo pace e stabilità: durante l’estate, però, era iniziata la guerra e il suo livello di popolarità era sceso notevolmente. Il problema del reattore nucleare rischiava di provocare una mezza catastrofe, anche perché all’epoca in Siria non c’era nessuna guerra civile ma solo un regime autoritario stabile. Colpire un obiettivo in Siria avrebbe potuto spingere il governo guidato da Bashar al Assad a rispondere militarmente: significava iniziare una nuova guerra, forse anche con un nuovo coinvolgimento di Hezbollah, e Israele non poteva permetterselo.

I mesi successivi alla scoperta del reattore furono frenetici: furono consultati esperti che per anni avevano fatto profili psicologici di Assad, fu coinvolta l’amministrazione statunitense e ci furono scontri furiosi tra il primo ministro israeliano Olmert e Ehud Barak, che durante l’estate era diventato ministro della Difesa. Il punto era sempre lo stesso: bisognava trovare un modo per eliminare la minaccia del reattore nucleare senza però provocare la reazione militare del regime siriano. Ed era una corsa contro il tempo: bisognava agire prima che il reattore entrasse in funzione, altrimenti non si avrebbe più avuto forza negoziale con il regime di Assad e un eventuale attacco mirato sarebbe potuto diventare una catastrofe, con le radiazioni provocate dalla distruzione della struttura che avrebbero potuto diffondersi e contaminare il fiume Eufrate.

Furono valutate diverse possibilità, tra moltissime tensioni. Olmert chiese più volte al governo americano di farsi carico del problema e di compiere un attacco mirato contro il reattore nucleare. L’amministrazione guidata da George Bush cercò riscontri sui sospetti israeliani: confermò l’esistenza del reattore ma non trovò altre prove che il regime di Assad stesse portando avanti un programma militare nucleare. Propose di iniziare a negoziare con il governo siriano, ma avrebbe significato informare Assad della scoperta israeliana e perdere il prezioso elemento sorpresa da sfruttare in caso di un eventuale attacco. Olmert disse a Bush: «Se non lo farete voi, lo faremo noi». Uno dei consiglieri del presidente statunitense raccontò poi a un funzionario israeliano che Bush disse, riferendosi a Olmert: «Vedi perché lo amo? Perché è quello con le palle più grosse del mondo».

Olmert non ebbe problemi solo con gli americani, ma anche all’interno del suo stesso governo e in particolare con Ehud Barak, che proponeva maggiore prudenza. Secondo la ricostruzione di Haaretz, Barak pensava che Olmert si stesse comportando come uno di quei presidenti da film americano. Barak pensava che i piani di attacco preparati dall’esercito israeliano fossero troppo affrettati e rischiosi, ma alla fine ebbe la meglio Olmert. Si cominciò a preparare il piano di attacco e addestrare i piloti per la missione, anche se solo alcuni di loro sapevano cosa avrebbero dovuto colpire quella notte: gli altri, per ragioni di sicurezza, furono lasciati all’oscuro fino all’ultimo momento.

La dottrina Begin e lo “spazio di negabilità”
L’idea dell’esercito israeliano era riprendere la cosiddetta “dottrina Begin”, dal nome del primo ministro israeliano Menachem Begin, che nel giugno 1981 ordinò un attacco contro il reattore nucleare iracheno Osirak voluto da Saddam Hussein. In pratica la “dottrina Begin” prevedeva attacchi mirati per prevenire programmi di proliferazione di armi di distruzione di massa, come le armi nucleari, portati avanti da paesi nemici di Israele: l’Iraq nel 1981 e la Siria nel 2007, per esempio.

Dall’inizio degli anni Duemila, Bashar al Assad stava sviluppando in segreto un programma nucleare militare in collaborazione con la Corea del Nord. Il programma era coordinato dal capo della Commissione per l’energia atomica, Othnam, quello dell’appartamento di Vienna, e dal generale Muhammad Suleiman, il militare scelto dal regime siriano per occuparsi delle operazioni segrete. Suleiman – che alla fine di tutta questa storia avrebbe fatto una brutta fine, ucciso da una bomba fuori dall’ambasciata iraniana a Damasco – aveva stretti legami con l’Iran ed Hezbollah ed era a capo di quello che Israele chiamava “l’esercito ombra” siriano.

La “dottrina Begin”, si sosteneva però nel governo israeliano, doveva essere applicata solo a certe condizioni, garantendo al regime siriano il cosiddetto “spazio di negabilità” (“denial space”, l’espressione inglese).

Lo “spazio di negabilità” è un concetto facile da capire ma difficile da applicare: è una possibilità che viene concessa all’avversario per negare che sia successa una cosa che lo metterebbe per qualche ragione in difficoltà. In altre parole, se Israele avesse messo in imbarazzo o umiliato pubblicamente il governo siriano, Assad sarebbe stato costretto a reagire per non perdere la faccia. Per evitarlo, e quindi evitare una guerra, era necessario che l’azione militare israeliana contro il reattore nucleare fosse rapida e decisa, e che rimanesse segreta. Se non se ne fosse parlato, lo stesso Assad non sarebbe stato interessato a rendere pubblico l’attacco, per due ragioni: farlo avrebbe significato riconoscere sia una sonora sconfitta subita per mano di Israele, sia l’esistenza di un programma nucleare illegale. La Siria è infatti firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare, quello che impedisce agli stati “non-nucleari” di dotarsi di un’arma atomica.

In altre parole, Israele doveva trovare un modo per distruggere il reattore nucleare e cancellare sul nascere le aspirazioni nucleari del regime, ma doveva farlo in modo abbastanza silenzioso da permettere ad Assad di non dover riconoscere pubblicamente la sconfitta e quindi non dover reagire. Il governo israeliano non avrebbe avuto il merito del successo dell’operazione, ma avrebbe eliminato quella che considerava un’enorme minaccia senza rischiare una nuova guerra.

Arriva il momento dell’attacco
Tra giugno e settembre 2007 l’esercito e il governo israeliani prepararono nei dettagli l’operazione militare e cercarono di calcolarne i rischi. Poi, all’inizio di settembre, il piano subì un’improvvisa accelerata.

Il governo fu avvisato che un giornale statunitense – non è chiaro quale – aveva chiesto al dipartimento della Difesa statunitense chiarimenti sulla presenza di un’installazione nucleare in Siria. Da qualche parte la notizia era uscita. Il governo israeliano fu convocato d’urgenza e alle 2 di notte di mercoledì 5 settembre approvò l’operazione militare. Alle 20 della stessa sera Olmert avvisò dell’attacco il leader dell’opposizione, Benjamin Netanyahu, oggi primo ministro. Poi andò in una base militare a Tel Aviv per seguire la missione, insieme ad alcuni membri del suo governo e a diversi comandanti militari.

Alle 22.30 gli aerei partirono dalle basi militari israeliane. Uno dei piloti, il colonnello Amir, ha raccontato ad Haaretz come furono quelle ore: «Fu un viaggio molto lungo, segreto, fatto in una notte molto buia e a un’altitudine di 100 metri sopra il livello del mare. Dovevi saper prendere ogni tipo di decisione nel giro di pochi secondi. In generale le cose andarono secondo i piani, ma non tutte. Le condizioni del tempo ci sorpresero in diversi punti. Dovemmo capire come meglio rispondere. Secondo quanto avevamo concordato prima di partire, non dovevano esserci comunicazioni tra gli aerei. Mantenemmo silenzio completo durante il volo». In un’intervista a volto coperto realizzata per Haaretz, il colonnello Amir ha raccontato anche il momento dello sganciamento delle bombe: «Un grande onore, una grande emozione», ha detto.

Quando uno dei piloti annunciò via radio al centro di comando a Tel Aviv il successo dell’operazione – usando la parola «Arizona» – i politici e i militari applaudirono e festeggiarono. Gli aerei atterrarono in Israele all’1.30 di quella notte. Il regime siriano non disse niente, né quella notte né in seguito.

Tre settimane dopo, Assad diede un’intervista a BBC e disse che alcuni aerei israeliani avevano attaccato un edificio militare siriano in disuso e che il suo governo si riservava il diritto di rispondere. L’ambasciatore siriano alle Nazioni Unite, Bashar Ja’afari, sostenne che in Siria non era stato bombardato niente e che gli aerei israeliani si erano scontrati con il sistema di difesa aereo siriano. Israele, come pianificato, non commentò. Cominciò invece a fare un giro di incontri diplomatici con i rappresentanti dei suoi alleati per convincerli a non fare dichiarazioni pubbliche sulle voci che stavano circolando. La “dottrina Begin” aveva funzionato e lo “spazio di negabilità” era stato riempito da Assad. L’operazione era stata un successo e il reattore nucleare era stato completamente distrutto.

Perché ora?
Per undici anni il governo israeliano ha impedito ai media nazionali di raccontare quanto successo, anche se molti continuarono a indagare per ricostruire i fatti di quella notte. Decise così per ragioni di sicurezza – come detto, la segretezza era fondamentale per la riuscita della missione – creando però allo stesso tempo qualche paradosso: per esempio per moltissimo tempo sono circolate voci e indiscrezioni sulla missione senza che il governo israeliano avesse alcun controllo sulla loro diffusione, visto che non andava oltre a un generico “no comment”. Diversi giornali americani raccontarono pezzi di questa storia, basati per lo più su informazioni uscite dallo stesso governo statunitense, che da un certo punto in poi fu costantemente informato delle mosse di Israele.

Non è chiaro il motivo per cui il governo di Israele abbia deciso solo ora di togliere il segreto su questa storia. Alcuni analisti ed ex membri del governo israeliano hanno detto che Israele ha voluto mandare una specie di monito al regime di Assad e all’Iran, suo alleato e paese sempre più influente negli affari interni siriani. Altri sostengono semplicemente che le cose siano cambiate e oggi raccontare quello che successe allora non è più in alcun modo rischioso per la sicurezza nazionale israeliana.

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