Il National Geographic ha ammesso di essere stato razzista

In un numero speciale dedicato al fatto che le razze non esistono se non come costrutti sociali: contiene anche un'analisi sul passato della rivista

La copertina del numero speciale del National Geographic dedicato alle razze, che non esistono; le due bambine ritratte sono gemelle
La copertina del numero speciale del National Geographic dedicato alle razze, che non esistono; le due bambine ritratte sono gemelle

Il numero di aprile della celebre rivista americana National Geographic è dedicato al tema delle razze umane – che non esistono, se non come costrutto sociale – e l’editoriale della direttrice Susan Goldberg parla del fatto che per anni gli articoli del National Geographic hanno contenuto frasi razziste, hanno ignorato gli afroamericani se non per mostrarli come operai o lavoratori domestici, e non hanno fatto nulla per contrastare gli stereotipi sulle differenze del colore della pelle. Goldberg ha chiesto a John Edwin Mason, un professore dell’Università della Virginia specializzato in storia della fotografia e storia dell’Africa, di studiare gli archivi del National Geographic per scoprire quanto la rivista – fondata nel 1888 – sia stata razzista in passato: lo scopo di questo studio era ammettere i propri errori, prima di analizzare quelli fatti ancora oggi dagli altri.

«Quello che Mason ha scoperto è che fino agli anni Settanta il National Geographic ignorava gli afroamericani, parlando di loro solo saltuariamente come operai o lavoratori domestici. Allo stesso tempo descriveva le popolazioni “native” di altre parti del mondo come felici cacciatori e nobili selvaggi esotici, spesso e notoriamente senza vestiti, rispettando quindi ogni tipo di cliché».

Tra le cose che Mason ha trovato negli archivi c’è un articolo del 1916 dedicato all’Australia in cui, sotto la fotografia di due persone aborigene, una didascalia dice: «Questi selvaggi hanno i livelli di intelligenza più bassi di tutti gli esseri umani». Ci sono poi innumerevoli fotografie del genere «persona nativa affascinata dalla tecnologia occidentale», che nell’essere uno stereotipo mostrano un pregiudizio basato sul colore della pelle.

Mason ha anche confrontato due diversi articoli dedicati al Sudafrica, uno del 1962 e l’altro nel 1977, dunque entrambi all’epoca in cui ancora nel paese c’era la segregazione razziale: il primo non citava in nessun modo la questione, nonostante solo due anni e mezzo prima ci fosse stato il massacro di Sharpeville, in cui 69 sudafricani neri furono uccisi; l’articolo del 1977, scritto dopo il periodo delle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti, parla dell’oppressione dei neri sudafricani. «Oggi è strano vedere ciò che i redattori, gli autori e i fotografi dell’epoca sceglievano coscientemente di non vedere», ha commentato Mason. Negli anni Sessanta il National Geographic era per molte persone l’unico e il primo modo per scoprire come vivessero altre popolazioni: «Si può dire che una rivista possa al tempo stesso aprire la mente delle persone e chiudergliela», ha detto Mason riferendosi al modo in cui i servizi del National Geographic potevano confermare i pregiudizi dei propri lettori.

Sulla copertina del numero speciale del National Geographic ci sono due bambine di 11 anni, Marcia (a sinistra) e Millie Biggs: una ha la pelle bianca e l’altra nera, ma sono gemelle eterozigote. Tra gli articoli pubblicati nel numero ce n’è uno del premio Pulitzer Elizabeth Kolbert che spiega perché le razze non esistono scientificamente, uno sull’ansia che molti americani bianchi provano per il fatto che la demografia degli Stati Uniti sta cambiando e ci sono sempre più persone non bianche – si stima che fra due anni la maggioranza dei bambini del paese farà parte di una minoranza etnica – e uno sui matrimoni tra persone che appartengono a etnie diverse.

Il National Geographic continuerà a occuparsi dei pregiudizi sulle etnie, delle religioni e delle caratteristiche fisiche di diversi gruppi umani anche nei prossimi mesi. Ad esempio nel numero di maggio racconterà alcune storie dei 3,45 milioni di americani musulmani, che provengono da più di 75 paesi diversi e le cui famiglie, in molti casi, vivono negli Stati Uniti da più di cento anni. Successivamente parlerà del fatto che le persone di origine centro e sudamericana hanno sempre più influenza dal punto di vista politico e culturale nel paese, visto che ne sono diventati la più grande minoranza etnica, e del contributo nel campo della medicina, della tecnologia e dell’economia delle persone di origine asiatica.

I pregiudizi e i costrutti sociali hanno ancora un peso grossissimo nella vita delle persone e che questo fa sì che in un certo senso le razze esistano: sono un costrutto sociale responsabile di tutte le volte in cui una persona subisce trattamenti discriminatori solo per via del suo aspetto fisico, e in particolare per il colore della sua pelle.

Perché le razze non esistono scientificamente