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  • Sabato 2 settembre 2017

La distruzione di un pezzo di storia

L'Economist racconta come gli ultimi anni di guerra in Medioriente stiano distruggendo l'eredità storica e culturale del mondo arabo

Palmira (LOUAI BESHARA/AFP/Getty Images)
Palmira (LOUAI BESHARA/AFP/Getty Images)

Oltre ai moltissimi conflitti, faide e genocidi che hanno colpito le persone nel corso dei secoli, il mondo arabo ha una lunga storia di distruzioni del suo patrimonio culturale. Una delle peggiori è l’invasione del 1258, quando l’esercito mongolo saccheggiò Baghdad e gettò nel fiume Tigri migliaia di volumi custoditi nella sua biblioteca. Per l’impatto che ebbe sul mondo arabo e la sua cultura, fu un evento probabilmente più grave ancora del sacco di Roma da parte dei vandali, otto secoli prima. Duecento anni dopo i mongoli arrivò Tamerlano, un signore della guerra turco che si impegnò in un “pellegrinaggio di distruzione” nei territori arabi che durò per anni.

Secondo un articolo pubblicato dall’Economist questa settimana, però, la quantità di distruzioni e saccheggi avvenuti nel recente passato, con i conflitti in Siria, Iraq e Yemen, non è paragonabile a nulla di quello che avevamo visto prima. L’ONU dice che metà della città vecchia di Mosul, in Iraq, e un terzo della città vecchia di Aleppo sono in rovina. Centinaia di minareti, monasteri e monumenti sono stati abbattuti. Su 38 siti Patrimonio dell’umanità considerati in pericolo, 22 sono nel Medioriente. Il Medioriente oggi «è come l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale», ha detto all’Economist Michael Danti, dell’American Schools of Oriental Reasearch (ASOR), un centro studi che realizza un bollettino mensile e uno settimanale sui danni arrecati al patrimonio culturale dell’area.

Un altro database in cui si può tenere traccia dei beni in pericolo è quello della Endangered Archaeology in the Middle East and North Africa, un centro studi presso l’università di Oxford.

Lo Stato Islamico è uno dei principali responsabili di questa nuova distruzione e i suoi miliziani vanno fieri del ruolo che hanno avuto. Si sono filmati mentre distruggono statue e altri reperti a colpi di martello, o mentre sistemano barili di esplosivo intorno ad antichi archi ed altre rovine. Per questo motivo, scrive l’Economist, non si sente spesso l’ISIS lamentarsi quando i suoi avversari gli riversano la colpa di tutte le distruzioni. Il comandante delle forze di coalizione a Mosul, la città recentemente riconquistata in Iraq, qualche tempo fa ha detto: «La responsabilità per questa distruzione appartiene tutta all’ISIS».

La verità, però, è che russi e americani, insieme ai loro alleati locali, hanno causato almeno tanti danni quanti ne hanno causati i miliziani dell’ISIS, e forse anche di più. Secondo i dati dell’ASOR, nella città di Mosul l’ISIS ha danneggiato 15 siti storico-religiosi. La coalizione guidata dagli americani per ricatturare la città ne ha danneggiati 47, di cui 38 sono stati quasi completamente distrutti. Gli attacchi aerei russi in supporto del presidente siriano Bashar al Assad hanno danneggiato tesori archeologici come la colonna sulla quale si dice che San Simeone abbia trascorso 37 anni. Le bombe di Assad hanno distrutto edifici in tutta la Siria e così hanno fatto i ribelli appoggiati dall’Occidente. Se per quello che è accaduto a Palmira si può accusare l’ISIS, la distruzione della città vecchia di Aleppo è quasi completamente imputabile ad Assad e ai ribelli.

La situazione non è migliore in Yemen, un paese dove da oramai tre anni è in corso un conflitto tra l’esercito dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati contro le milizie sciite che hanno occupato la capitale del paese. Gli attacchi aerei della coalizione hanno colpito in tutto il paese, spesso con poca precisione. Ad esempio, è stato bombardato il museo nazionale di Dhamar, che ospita 12.500 reperti e opere d’arte. La Grande diga di Marib, un’antica meraviglia ingegneristica, è stata danneggiata, così come il complesso di torri al Qasimi, nella città vecchia di Sana’a. «A volte, il miglior modo per proteggere le opere archeologiche è lasciarle sotto terra», ha commentato amaramente all’Economist Hanna Pennock, ex direttore dell’ICOM.

Secondo l’Economist, però, la pressione internazionale perché questo tipo di distruzioni non venga lasciato impunito sta iniziando a crescere. Lo scorso marzo, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha ripetuto che attaccare siti culturali costituisce un crimine di guerra. Come a sottolineare il punto, a settembre la Corte penale internazionale ha emanato la sua prima sentenza di condanna per il crimine di distruzione di siti religiosi e culturali. Ahmad al Faq al Mahdi, un leader delle milizie tuareg in Mali, ha ammesso di aver dato ordine ai suoi uomini di attaccare e distruggere biblioteche, palazzi e altri luogo di importanza culturale nella città di Timbuktu ed è stato condannato a nove anni.

Ma il problema del Medioriente non è soltanto la guerra. Saccheggi e distruzioni proseguono anche dopo la fine dei combattimenti, quando povertà, disperazione, disgregazione del potere dello stato contribuiscono ad accelerare l’opera dei vandali. Sciacalli e tombaroli si aggirano per le rovine in tutti quei paesi dove guerra e conflitti hanno fatto sparire o indebolito l’autorità pubblica. L’anno scorso, ad esempio, da una moschea di Aleppo è sparita una pietra che recava un’impronta attribuita alla mano di Maometto. Nei 72 depositi di materiale archeologico egiziano, che custodiscono migliaia di reperti non ancora catalogati, la guardia viene montata da poliziotti non armati e i depositi, in realtà, sono molto frequentati dai ladri di tesori.

La maggior parte dei contrabbandieri la fa franca. Catturarli una volta che arrivano in Occidente è molto complicato. Mentre i governi nel mondo arabo hanno altre priorità – oppure, semplicemente, di governi non ce ne sono. Le tregue locali hanno calmato gran parte della Libia, ma il paese non ha più un ministero che sia in grado di occuparsi dei tesori archeologici del paese. Al momento il sito archeologico di Leptis Magna, il più importante del paese, è difeso da una banda locale, piuttosto malconcia e male armata.

La ricostruzione post bellica, infine, è spesso un eufemismo per l’atto finale di distruzione. Il settimanale ricorda che esperti e archeologi fantasticano ancora oggi sui tesori che giacciono sepolti sotto i nuovi quartieri di Beirut, costruiti in tutta fretta e senza grande cura dopo la fine della guerra civile. Ad Aleppo, in Siria, gli ingegneri hanno già iniziato a fare le loro rilevazioni per iniziare a costruire non appena le armi avranno smesso di sparare. Di certo con la ricostruzione alcuni tesori riusciranno a sopravvivere. Nelle prossime settimane la torre dell’orologio di Aleppo dovrebbe tornare a suonare per la prima volta in sei anni. Alcune facciate storiche potrebbero venire restaurate molto presto. Ma si avvicina anche il momento in cui macchinari per il movimento terra inizieranno a scavare le fondamenta di un nuovo quartiere di grattacieli su un sito archeologico vecchio di ottomila anni. «I buldozer», si è lamentato con l’Economist un archeologo del posto, «a volte sono peggio dei carri armati».