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  • Martedì 28 marzo 2017

Nessuno può fermarmi

La ricerca di notizie sulla morte del nonno, e un pezzo di storia dimenticata, nel nuovo romanzo di Caterina Soffici

È uscito da poco per Feltrinelli Nessuno può fermarmi di Caterina Soffici, giornalista e scrittrice italiana che vive da alcuni anni a Londra, autrice di Ma le donne no e Italia yes Italia no.

Il protagonista del romanzo, Bartolomeo, dopo aver ritrovato fra le carte di sua nonna una lettera in cui suo nonno Bart veniva dato per disperso in mare – e non come lui aveva sempre creduto morto al fronte durante la seconda guerra mondiale – inizia a cercare notizie del nonno. Grazie all’aiuto di una vecchia signora inglese amica dei nonni (che all’epoca vivevano a Londra), Bartolomeo scopre la verità sul nonno, una delle oltre ottocento persone morte nel naufragio dell’Arandora Star, una nave che trasportava internati italiani e tedeschi dal Regno Unito al Canada, affondata nel 1940 dopo essere stata colpita da un siluro tedesco.

Questo è l’inizio del romanzo.

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***

“Pronto, mi sente?”
Lo sento benissimo. Il problema è che non riesco a parlare.
Mi ronza la testa e ho la sensazione che il sangue se ne stia andando dal cervello. Mi siedo sullo sgabello ricoperto di velluto rosso.
Era rosso, almeno. Dovrei farlo rivestire. Ci penso sempre quando vado a rispondere al telefono e mi casca l’occhio sul bordo, così liso che ormai mostra la trama della tela.
Ogni volta lo scrivo su un foglietto: tappezziere. E poi perdo il foglietto. O chissà dove lo infilo. Comunque il tappezziere non è mai venuto, questo è sicuro. Quindi presumo di non averlo mai chiamato.
Guardo la mia immagine nello specchio dell’ingresso e vedo una vecchia signora con la cornetta in mano. Sono proprio io, Florence Willis, nella penombra di questa torrida giornata di luglio, con una mosca che continua a sbattere contro lo specchio intuendo una via di fuga riflessa. Tengo le tapparelle abbassate per lasciare fuori l’afa. Già a metà mattina i vestiti si appiccicano al corpo e ti entra quel torpore delle giornate d’estate, quando si aspetta solo il calare del sole e il primo refolo d’aria portato dall’imbrunire.
Tutto si muove al rallentatore, oggi, anche il mio cervello non riesce a funzionare più veloce. E dall’altra parte quella voce.
Bartolomeo Berni? Com’è possibile?
Sono le dieci e mezzo. Questo lo so perfettamente. Quando è squillato il telefono stavo per scendere a portare fuori la spazzatura e poi sarei uscita per la mia camminata. Dice il dottore che devo camminare almeno quarantacinque minuti al giorno.
E io cammino. Esco e cammino, anche se non so bene dove andare.
Mi avvio senza una destinazione precisa. Ogni giorno credo di cambiare itinerario, ma poi finisco per passare sempre dalle stesse strade. Quando c’è il mercato almeno ho una meta, arrivo fino alla piazza e giro tra i banchetti. Mi diverte guardare la merce, sentire le voci della gente.
Camminare non mi dispiace. È questa storia dei quarantacinque minuti che mi infastidisce. Perché sono una persona meticolosa, e se uno mi dice quarantacinque se poi ne camminassi solo quaranta, per dire, mi sentirei in colpa.
Insomma, alle dieci e mezzo porto giù la spazzatura. Non che faccia mai niente di particolare, la mattina. E neanche il pomeriggio o la sera, per la verità. Ma certe piccole cose le faccio sempre alla stessa ora. Non c’è un motivo, è che mi sono abituata così. La mia vita è fatta di piccole abitudini. Ve ne dico una? Non posso iniziare la giornata se prima non ho rifatto il letto. È da quando sono bambina che seguo questo rito. Rifare il letto è rimettere le cose al loro posto. Anche voi avete le vostre manie, solo che non ci fate caso perché siete sempre di corsa. Io invece ci penso spesso, perché vivo sola, e quando si è soli si ha molto tempo libero e si pensa tanto. Si pensa un po’ a tutto. Certe volte mi siedo in poltrona e provo a leggere. E subito mi trovo a seguire altri pensieri. Le righe si accavallano, leggo paragrafi interi senza capire cosa sto leggendo, perché nel frattempo la mia mente è già altrove. Allora torno indietro e rileggo. Leggo, mi perdo e rileggo. Talvolta mi appisolo.
Ma sto divagando, come sempre. Insomma, sono le dieci e mezzo e il mio nuovo telefono squilla con insistenza. Non come quando chiamano per le promozioni, che buttano giù senza darti neppure il tempo di rispondere.
Questa mattina di luglio è diverso, non vuole smettere.
“Pronto?”
Arrivo un po’ in affanno, perché questa nuova cornetta portatile mi fa impazzire. Non è mai dove dovrebbe essere. Non sapete quanto preferivo il mio vecchio telefono grigio della Sip, quello con la rotella, appeso alla parete nel corridoio. Ora ho questa specie di astronave che quando suona lancia bagliori blu elettrico, come il lampeggiante di un’ambulanza. “Modello Rocket, nero, con tastiera retroilluminata. Dia retta a me, è un vero affare,” ha detto il commesso, “il miglior rapporto qualità prezzo sul mercato. Può memorizzare i dieci numeri che chiama più di frequente.”
Non so per quale motivo mi sono fatta convincere. Forse non volevo deluderlo, poveretto. Non sono mai stata brava a dire no. Non ho nessun numero da memorizzare e non chiamo di frequente. Anzi, diciamolo, non telefono mai a nessuno.
“Pronto? Parlo con la signora Willis?… Sono Bartolomeo Berni.”
Devo resistere all’impulso di riattaccare. Non ci posso credere. Bartolomeo Berni? Se è uno scherzo, è di pessimo gusto. Ma non può essere uno scherzo. Dev’esserci un’altra spiegazione.

Sono impazzita. Ecco cos’è. Sto diventando matta, chiaro. Arteriosclerosi, Alzheimer, niente è da escludere. Quando la mia mente vaga, ogni tanto arriva anche il pensiero terribile di non esserci più con la testa. Una volta questa cornetta portatile squillava e non capivo da dove venisse il trillo ovattato. L’ho cercata ovunque ed era nello sportello del frigo, dove stanno le bottiglie. Capite? Faccio cose del genere.
Alla mia età succede. Ho visto tanti amici finire così. Loro erano lì e la loro testa non c’era più, fluttuava in un mondo dove noi non potevamo più entrare.
Sta succedendo anche a me, penso. No, forse sto solo sognando. Mi sono appisolata e sono ancora in quel dormiveglia dove il reale e il fantastico si rincorrono. Quella terra di mezzo dove sogni, ricordi, realtà, fantasia si mischiano in una specie di nebbia.
La solitudine fa brutti scherzi. Passo intere giornate da sola. Credevo di essermi abituata alla solitudine. Ma non ci si abitua mai davvero. Ve l’ho detto, si pensa troppo quando si è soli tutto il giorno.
Oggi non c’è il mercato. Se voglio scambiare due parole potrei andare a comprare un po’ di frutta. Potrei scendere da Vinicio: “Belle quelle pesche”, “Assaggi le susine”, “Vorrei un quarto di anguria”, “Le faccio portare su il sacchetto dal ragazzo”, “Fa caldo oggi, speriamo piova”. Tutto qui. Fine della chiacchierata. Spesso le mie conversazioni sono soltanto queste, sul cibo e sul tempo. I miei interlocutori sono Vinicio, il garzone, la barista, il giornalaio.
Non che mi lamenti, per carità. C’è chi sta peggio. Ma, come dicevo, alla solitudine non ci si abitua mai davvero.

“Pronto?… Signora Willis? È ancora lì?”
Continuo a tenere il telefono in mano, senza dire una parola. Mi guardo nello specchio e guardo la mia nuvola di capelli bianchi. L’ultima volta che ho visto Bartolomeo Berni ero così giovane.
Il povero, caro Bart. Eravamo tutti così giovani.
Io ho sempre dimostrato meno dei miei anni, ma allora sembravo davvero una ragazzina. Avevo la pelle chiarissima, levigata e fine come la porcellana, gli occhi color azzurro del cielo e i capelli così biondi che quando hanno iniziato a diventare bianchi non me ne sono quasi accorta. Li portavo lunghissimi, allora. Poi, durante i bombardamenti su Londra, li ho tagliati e ho sentito che un pezzo di giovinezza se ne andava via con loro. Era l’autunno del 1940, questo lo ricordo bene. Quanto tempo è passato? Chi lo sa. Siamo nel 2001. Più di sessant’anni. Mamma mia, una vita fa.
“Pronto, signora? Scusi, sono Bartolomeo Berni. Se l’ho disturbata richiamo in un altro momento.”
“No no, non mi ha disturbato,” riesco a dire.
Non voglio affatto che richiami. Voglio sapere a chi appartiene questa voce.
“Credo che lei abbia conosciuto mio nonno. Durante la guerra, a Londra.”

Certo che l’ho conosciuto suo nonno Bartolomeo. E anche sua nonna, la mia amica Angela. La chiamavano Lina. Si chiamavano tutti con un diminutivo, nel Quartiere. Per noi inglesi era Little Italy. Per gli italiani era semplicemente The Hill. E “down The Hill”, come dicevano, non usavano nomi: solo diminutivi. Bart e Lina. Mickey e Flo, che eravamo Michele e io. Da quando bazzicavo The Hill ero diventata Flo. Avevo capito di essere una di famiglia quando avevano cominciato a chiamarmi con quelle tre lettere, Flo. “Ciao Flo.” “Ciao” era stata la prima parola che avevo imparato. L’italiano mi piaceva. Una lingua così morbida e musicale. Dentro il Quartiere parlavano tutti italiano. Ho conosciuto vecchie che non hanno mai imparato una parola d’inglese. Non ne avevano mai avuto bisogno, ci pensavano i loro uomini a uscire dal Quartiere. Io invece l’italiano l’avevo imparato subito. “Ti amo” era stata la prima frase.

Rimetto il telefono al suo posto. E rimango a fissare il vuoto.
Chissà perché vuol sapere di suo nonno. A chi importa ormai di quella vecchia storia? Tutti hanno sempre voluto dimenticare, lui adesso vuole ricordare.
Dice che ha trovato una strana lettera nelle carte della nonna e che forse io posso aiutarlo. Non capisce. Credeva che il nonno fosse morto al fronte. Invece pare di no. “Perché era su quella nave?” ha chiesto.
Bella domanda. Nessuno l’ha mai capito. Sono state fatte tante ipotesi e ho sentito dire tante di quelle stupidaggini su questa vicenda. Assurdità, congetture fantasiose, storie di spie. Tutte insensatezze. Nessuno ha mai dato una spiegazione ufficiale, comunque.
Mi ha chiesto se può venire a trovarmi. Potevo dirgli di no? Sì, ovvio che avrei potuto. Anzi, forse avrei dovuto. Certe cose sarebbe meglio lasciarle dove stanno, ben sigillate nelle stanze della memoria di chi le ha vissute e senza riaprire più quelle porte. Non si sa mai cosa ne esce, quando uno va a stuzzicare i vecchi lucchetti arrugginiti.
Invece gli ho detto di sì.
“Vieni quando vuoi.”
“Allora se non le dispiace potrei venire domani, sono di passaggio a Milano.”
Sembra gentile, al telefono. Sono curiosa di vederlo. Chissà se gli assomiglia.

Scrivo tappezziere su un foglietto e lo infilo nella cornice dello specchio. Lo chiamerò dopo. E poi scrivo parrucchiere su un altro foglietto. Sennò lo dimentico. Però lui è meglio se lo chiamo subito, penso. Quando viene il ragazzo voglio essere in ordine.
La mia vita è piena di foglietti. Brutta bestia, la memoria. Quando ti serve, non si fa trovare. Quando la vorresti lasciare riposare nel suo antro, si sveglia d’improvviso, arriva al galoppo e travolge tutto. Strano come alla nostra età più le cose si allontanano, più diventano nitide. Chissà com’è il nipote di Bartolomeo. Quando mi sono fidanzata con Michele, quei due erano come fratelli. Tutta la famiglia Berni mi trattava come una figlia.
E quelli sono stati anni indimenticabili, nonostante tutto.
Da Vinicio scendo dopo. Ora fa troppo caldo e mi piace indugiare qui, nella penombra della cucina, con le tapparelle abbassate e la luce che filtra a lame. Mi siedo al tavolo e finisco il caffè rimasto a freddare nella tazzina. È piacevole stare appoggiati al piano di marmo, rinfresca anche lo spirito.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano