• Italia
  • Lunedì 13 febbraio 2017

Lasciatelo lavorare

Guardiamoci intorno: ha senso votare a giugno, con questa offerta politica e un governo regolarmente in carica?

di Il Post

Paolo Gentiloni a Londra lo scorso 9 febbraio (Kate Green / Anadolu Agency)
Paolo Gentiloni a Londra lo scorso 9 febbraio (Kate Green / Anadolu Agency)

Le elezioni sono una cosa promettente, in condizioni normali: sono l’occasione per presentare progetti, per rinnovare condizioni insoddisfacenti, per impegnarsi a fare bella figura e convincere di essere migliori, soprattutto tra chi ha a cuore il progresso delle comunità e per questo si dice “progressista”, definizione non molto popolare, ultimamente.
Votare per costruire qualcosa che riavvii un progetto di miglioramento dell’Italia dovrebbe quindi essere auspicabile, considerata la piega presa dall’anno passato, quella di un visibile esaurimento di spinta propulsiva – come si diceva una volta – da parte del governo Renzi e della sua sconfitta al referendum, con tutto quello che ha significato e implicato, indimenticabile.

Ma a metà febbraio 2017 si può dire con una certa sicurezza che raramente si era visto – e se ne sono visti – un quadro così estesamente malconcio tra i partiti che dovrebbero convincerci di essere interpreti di questo eventuale progetto. Abituati a vedere partiti e politici che si danno un senso nella contestazione del governo, persino quelli che lo sostengono, e nel prenderne le distanze e farne un capro espiatorio, ci troviamo oggi nella anomala condizione di avere un governo che è meno malvisto dei partiti e dei loro leader politici, molto occupati a non occuparsene e a occupare da soli la scena delle polemichette. Il governo è sullo sfondo, e forse è un bene: pure per il governo.

È lo stesso di prima, il governo, come si sa, salvo la non irrilevante differenza del suo capo: ma la tensione polemica e distruttiva di cui era stato protagonista è sparita (per uguali responsabilità del suo ex capo e dei suoi odiatori), e stiamo tutti vivendo una condizione simile a quella dei primi mesi del governo Monti, prima delle delusioni, quando la politica ingrigita e tecnica, inafferrabile per il consueto aizzamento di bellicosità da parte dei media, ebbe per un po’ qualcosa di riposante e rassicurante, come avere consegnato una pratica e le seccature relative, dopo tanto stress.

L’offerta di proposte politiche alternative in circolazione è intanto così regressiva e sciatta, basata solo sulla costruzione e strumentalizzazione di rabbie e risentimenti, da fare sì che negli ultimi mesi Silvio Berlusconi sembri il moderato – letteralmente – che ha sempre insistito di voler essere, e le sue interviste quelle di uno statista. Le ipotesi di accordi tra Lega e M5S, pur campate in aria, la dicono lunga sulle impressioni di sintonia che danno quei due partiti, che hanno contribuito – bisogna dargliene atto – alla scomparsa della destra tradizionale, rimpiazzandola. Sintonia soprattutto di linguaggi e slogan, che sono il grosso della politica in circolazione.

D’altro canto, a sinistra, il progetto di Renzi non sembra essersi dato né il tempo né la sostanza di rendersi di nuovo convincente dopo la sconfitta al referendum. Piacesse o no nelle intenzioni – o in quelle che in molti ci hanno voluto vedere – i risultati contano. E certo, come ripete Gentiloni, il governo Renzi rivendichi i risultati che ha ottenuto, che ci sono, ma qualcosa palesemente non andava e “va ripensato”, come dice la formula stantìa ma in questo caso fondatissima: bisogna che delle teste – non solo quella di Renzi, che da sola, si è visto, non basta – si mettano a pensare qualcosa che non solo sia più di quello che era prima, ma valga a compensare e annullare la condizione adesso nuova – di sconfitta – di quel progetto. Quel treno là è passato, e giudicare se il suo conducente sia stato più bravo a farlo partire o più sventato a farlo frenare, è abbastanza inutile: adesso deve fare sforzo doppio, e finora non se ne sono visti i segni. I segni sono la prima cosa.

Renzi rimane però – per chi non è interessato solo a criticare e darsi un senso così – il leader più forte all’interno del centrosinistra. Gli altri che lo contestano, appunto, lo contestano, illudendosi di nuove giovinezze o che non hanno mai avuto: i più saggi, Cuperlo e Rossi, non sembrano in grado di radunare e convincere molto, forse proprio per troppa saggezza (Cuperlo non ha mai voluto convincere nessuno, poi), ma anche per distanza da una contemporaneità e concretezza che Renzi frequenta e conosce di più, e che ultimamente sembra governata solo da loschi figuri, in tutto il mondo.

Ci sono stati tempi in cui il Post e molti suoi lettori – che la pensano in tanti modi diversi – si sono animati nella prospettiva di qualcosa di nuovo e che cambiasse cose palesemente da cambiare. Ancora ci piacerebbe, e ci contiamo. Ma sono successe delle cose, nel mondo, che richiedono ben più della loro constatazione e registrazione: richiedono di trovare dei modi diversi di affrontarle, modi a cui nella sinistra italiana non sembra pensare nessuno. Brexit, Trump, i “populismi”, sono presenti nel dibattito solo come cose da temere e respingere, senza che nessuno mostri di chiedersi come, o di voler rivedere gli approcci tenuti finora, politici, culturali e di comunicazione. “Prendere atto” è un’espressione che abbonda su molte bocche, ma non è mai seguita da una formulazione di progetto: e l’impressione è che gli unici progetti che sopravvivono nei centrosinistra – Trudeau, Macron, Renzi stesso malgrado tutto – siano quelli che più si tengono a distanza, dalle inclinazioni populiste, a differenza di Corbyn, Podemos, eccetera.

Nel frattempo, nel suo piccolo, c’è un governo Gentiloni: che lavora da governo, anche se non siamo abituati a un governo che governa e sui giornali non si vede. Malgrado gli sforzi dei media – che senza polemiche e violenza si sentono soffocare – e i frequenti contributi di Grillo, l’aria che tira è meno velenosa e ci sarebbero le condizioni per lavorare intanto a una ricostruzione più sensata e raziocinante del PD e dei suoi piani (e anche del centrodestra, a chi piace il genere): e di certo non ce la si può aspettare – per ragioni diverse di inadeguatezza – né da D’Alema, né da Emiliano, né da Speranza, sopravvalutati dalle interviste sui quotidiani e nei talkshow. C’è il “progetto di Pisapia”, rispettabilissimo per il suo titolare, probabilmente assai minoritario, ma soprattutto abbastanza inesistente al momento e bisognoso di tempo.

Poi c’è la questione di cosa – al di là di queste riflessioni sull’offerta politica – potrebbe uscire di praticamente proficuo dai risultati di elezioni in questo quadro: qualunque sia la legge elettorale, non ci sembrano essere ora le condizioni per maggioranze solide e convincenti. Gli unici a poter contare su dei risultati, se si vota presto, saremmo noialtri che campiamo di lettori e clic: e infatti molti stanno facendo il possibile, a guardare in giro.
Invece avremmo tutti bisogno di tempo, a conti fatti. Questa cosa di giugno, forse meglio accantonare.