Come funziona il reclutamento nelle università
Non funziona, scrive Filippomaria Pontani: per colpa dei pochi soldi, della scarsa collaborazione pratica ed etica degli accademici, e di una riforma insufficiente
di Filippomaria Pontani
Ha fatto rumore nei giorni scorsi la denuncia di Raffaele Cantone circa la corruzione e il sistema di scambio di favori imperante nell’accademia italiana, che sarebbe a suo dire tra le cause prime della cosiddetta “fuga dei cervelli”. Le reazioni sono state numerose, e così i lai (invero ciclici, come il Festival di Sanremo) sullo stato pietoso dell’etica nei nostri Atenei, o viceversa le difese (anch’esse, ormai, cicliche) della loro misconosciuta eccellenza. Cerchiamo di fare un po’ d’ordine, provando a evitare gli opposti estremismi, e senza ambire affatto a giudicare l’università italiana nel suo complesso (impresa ben più ardua di quel che si pensi), bensì cercando soltanto di allineare dati di fatto, e soprattutto procedure. Ci occuperemo qui soltanto del reclutamento, che è però forse il nodo centrale della questione universitaria.
a) Il primo fatto da cui partire è il sottofinanziamento della ricerca italiana, by any standard: è quello il male principale che, traducendosi in scarsità di fondi di ricerca, obsolescenza delle strutture, scarsità di paghe e prospettive, ed episodicità dei concorsi, induce molti ricercatori a prendere la via dell’estero. Il confronto con la percentuale del PIL investita in ricerca dagli altri Paesi europei è un numero che non ha bisogno di commenti (tra l’1 e l’1,2% del PIL contro il 2,2 della Francia e il 2,8 della Germania, comunque molto al di sotto della media europea che è attorno al 2: si vedano da ultimo, per un’analisi dei dati relativi, Gianfranco Viesti (a c. di), Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, Donzelli 2016; F. Sylos Labini, Rischio e previsione, Laterza 2016; ma anche i capitoli finali del libro di Elena Cattaneo, Ogni giorno, Mondadori 2016).
Da questa situazione, combinata con un sistema di governo in perenne mutamento e oggettivamente disfunzionale da molto tempo (si veda, al di là delle soluzioni proposte, l’analisi di G. Capano – G. Tognon, La crisi del potere accademico in Italia, il Mulino 2016), discendono in prima battuta altri effetti nefasti, quali la contrazione del numero complessivo degli studenti (che rimane assai inferiore rispetto a quello di altri Paesi comparabili al nostro), l’abbattimento del numero dei corsi di dottorato di ricerca (nonché di quello dei dottori di ricerca medesimi), e ovviamente il crollo del numero dei ricercatori e dei docenti (qui alcuni numeri). Del resto, che il sottofinanziamento cronico – in barba a tutti i mirabolanti annunci degli ultimi tempi (ci torneremo più sotto, in conclusione) – abbia prodotto i suoi aspri effetti combinati con la crisi generale dell’economia del Paese, non può stupire i molti che l’avevano largamente previsto, in assenza di politiche atte a invertire la tendenza: da un PNR all’altro, si naviga sempre a vista, per lo più sotto costa, cedendo non di rado – come ancora di recente il ministro Calenda – alle tentazioni di interventi dirigisti che scelgano dall’alto le 3-4 istituzioni nelle quali investire cifre enormi, destinate a spaccare il sistema in tronconi non comunicanti. Tanto più colpisce, in queste condizioni, il fatto indiscutibile e più volte ribadito che l’Università italiana nel suo complesso continui a sfornare ricercatori che s’impongono spesso nelle competizioni aperte all’estero, e continui a pubblicare in sedi internazionali articoli e monografie di prim’ordine, anche oltre il livello di Paesi nei quali l’impegno finanziario pubblico nel settore è ben più cospicuo.
b) Ciò detto, il problema denunciato da Cantone esiste: chi sostiene che la corruzione non sia tra i mali del sistema universitario italiano evidentemente non vede o non vuole vedere. Troppo spesso si limita la questione al nepotismo familiare, che è sicuramente un problema (soprattutto in alcuni Dipartimenti, e in alcuni Atenei), ma che è regolarmente sovrastimato per fini polemici o facilmente denigratorî: la stessa algebra delle omomimie, tirata in ballo in un libro largamente sbagliato di Roberto Perotti, è stata confutata nel dettaglio. Certo, le tentazioni nepotistiche esistono: e, a onor del vero, la legge 240/2010 (meglio nota come “riforma Gelmini”) ha cercato di porvi un primo, piccolo argine impedendo la coesistenza di parenti stretti nello stesso Dipartimento. Si può discutere l’incompletezza della norma, ma che essa vada nella giusta direzione pare indubbio: non è infatti solo una questione di assunzioni o di potere, ma si capisce immediatamente che l’esistenza di forti legami personali crea anche inevitabili malfunzionamenti (o, al meglio, imbarazzi) nell’intera macchina di un organismo complesso come un Dipartimento. Semmai, il problema sta nel prevenire gli scambi “incrociati” fra diversi Dipartimenti e diversi Atenei, cui lo stesso Cantone fa riferimento nel suo j’accuse: ma non è umanamente ragionevole pensare di normare per legge tutte le casistiche possibili, nel momento in cui l’unica guardia affidabile dovrebbe essere (e dico, dovrebbe) il senso di moralità dei professori che gestiscono il sistema.
c) A distanza di alcuni anni dall’approvazione della vituperata legge Gelmini, si può dire che se essa ha sortito effetti nefasti sul finanziamento della ricerca e delle università, d’altra parte il sistema del reclutamento – perché, come detto, di quello solo ci occuperemo qui – si è sviluppato secondo binari che hanno piegato lo spirito della legge nella direzione più triste e prevedibile (un’analisi della riforma, con attenzione anche a questo aspetto, la condussi anni fa). Molto più importante della provenienza anagrafica o familiare, infatti, continua ad essere in accademia l’appartenenza ligia a una “cordata”, a una “scuola”, secondo un paradigma brillantemente tratteggiato da Nicola Gardini in un suo lucido romanzo del 2010: scardinare questo meccanismo, per quanto si legiferi, è impossibile se la classe docente in questione non collabora; e qui, con ogni evidenza, non ha collaborato. Sacrosante, in proposito, le parole di Alessandro Figà Talamanca, il quale ha individuato nelle norme sul reclutamento, combinate con la precarizzazione del ruolo dei ricercatori fino ben oltre i 40 anni (si veda qui sotto, al punto d), la realizzazione del sogno degli ordinari (intesi come classe, beninteso, non come singoli) di avere un controllo integrale sulle vite e le carriere degli studiosi più giovani.
Un primo errore della legge Gelmini è stato proprio quello di mettere tutto il reclutamento nelle mani dei professori ordinari, una casta sempre meno numerosa (in ragione dei molti pensionamenti con mancato turnover, o con ricambio a un grado inferiore), sempre più anziana e sempre più gelosa dei propri privilegi e del proprio potere; in certi settori scientifico-disciplinari, la categoria degli ordinari è così ristretta a livello nazionale da rendere i contatti personali (e talora le pressioni) quasi inevitabili. Ma più ancora, è stata l’assoluta discrezionalità lasciata per legge ai Dipartimenti e agli Atenei nella stesura dei Regolamenti per il reclutamento, e dunque dei singoli bandi di concorso, ad aver reso di fatto inevitabile l’esito che tramite i concorsi “ogni sede si prenda i propri”, spesso ad onta di ogni idea di libera competizione, di mobilità dei ricercatori, quando non di meritocrazia. Analizziamo dunque – in maniera giocoforza sommaria: le singole casistiche richiederebbero un volume a parte – i principali sistemi di reclutamento oggi in vigore per le varie categorie di universitari, che sono: ricercatori di tipo A (a tempo determinato, 3 anni rinnovabili per altri 2), ricercatori di tipo B (sulla carta anch’essi a tempo determinato, ma di fatto con possibilità automatica, al termine dei 3 anni, di passaggio a professore associato previo conseguimento dell’Abilitazione Scientifica Nazionale e previa valutazione del singolo Dipartimento), professori associati (II fascia) e ordinari (I fascia).
d) Il reclutamento “normale”, che insiste sul Fondo di Finanziamento Ordinario distribuito annualmente dal Ministero a tutti gli Atenei, è bipartito: da una parte i ricercatori, dall’altra i professori. Per i ricercatori di tipo A e di tipo B, che hanno obblighi di ricerca e obblighi didattici affatto simili ma destini completamente diversi fra loro (del tutto precari i primi, virtualmente stabili i secondi: giuridicamente e funzionalmente la cosa crea diversi problemi), i concorsi si svolgono su base locale: non sono previste obbligatoriamente prove scritte né orali; si richiedono un certo numero di requisiti (talora bizzarri: perché un ricercatore può concorrere al grado “B” se ha avuto 3 anni di contratto post-dottorale, ma non se ne ha avuti 2 e magari ha 3 monografie di livello internazionale?); la commissione è designata dal Dipartimento in maniera largamente arbitraria, secondo regolamenti che variano da Ateneo ad Ateneo e da Dipartimento a Dipartimento (spesso c’è un membro “interno” del Dipartimento, e di norma due altri docenti del settore, scelti o sorteggiati tra una rosa proposta dallo stesso membro interno: commissioni in buona parte “fatte in casa”, insomma); infine, in questi concorsi capita di norma che i candidati debbano rispondere a un “profilo”, talora così dettagliato e stringente da configurare praticamente già a priori un vincitore, o dallo scoraggiare potenziali candidati. Ciò, si badi, non vuole affatto dire che si assuma necessariamente il peggiore: il punto è che possono certo presentarsi candidati con più titoli o maggiore esperienza rispetto al candidato “predestinato” (perché, gira e rigira, c’è sempre un predestinato), ma costoro – quand’anche fossero valutati in modo equanime dalla commissione costituita come visto sopra – hanno ben poche probabilità di successo se non si sono occupati dello stesso tema che viene messo a bando: è questo – unitamente all’inveterata abitudine italica di “non disturbare il manovratore”, e al frequente tentativo di non dare molta pubblicità ai bandi prima della loro scadenza – il motivo per cui troppe volte i candidati a questi concorsi sono in numero inferiore a 2.
Ribadisco: non necessariamente il predestinato è un cattivo ricercatore, e anzi sono stati introdotti da alcuni Atenei dei parametri minimi da rispettare (peraltro, come tutti, largamente discutibili) che tagliano (o dovrebbero tagliare) le gambe a ricercatori palesemente inadatti: il punto è che, comunque la mettiamo, i concorsi sono per lo più preconfezionati, o almeno fortemente orientati. E in tale ingessamento – che riguarda il primo, instabile gradino della carriera accademica – risiede una delle principali differenze rispetto all’area anglo-sassone (con cui il confronto è peraltro assai difficile, perché tutto il sistema è radicalmente diverso), dove invece i “profili” sono di norma assai più generici, talora (come in Germania) si proibisce addirittura la “carriera interna” (ovvero il ricercatore non può nascere e morire nello stesso Ateneo), e comunque si garantisce una competizione non di rado aperta, nonché un’indagine approfondita delle capacità di ogni candidato; ne hanno beneficiato e ne beneficiano com’è noto molti Italiani, che sono entrati per questa via nei sistemi universitari di altri Paesi. Ciò detto, bisogna altrettanto guardarsi dall’idealizzare i sistemi dell’estero, in quanto anch’essi lasciano ampio spazio a fondate riserve (penso alle cabale che presiedono del concorso nazionale per il CNRS francese, o alle discutibili procedure per i concorsi di “maître de conférences”, o ancora allo spirito fortemente gerarchico che determina “la vita e la morte” dei giovani ricercatori nell’accademia tedesca). Il sistema che abbiamo noi, però, è stato autorevolmente definito (Capano-Tognon) come “un non luogo di scorribande di un potere sfuggito a ogni esercizio ordinato di programmazione”.
e) Per i professori di II e di I fascia, vi sono invece altre due tipologie di reclutamento (prescindo qui dalle chiamate dirette o per chiara fama, che richiederebbero un discorso a parte e comunque rappresentano una percentuale limitata del totale). La prima tipologia – usata ampiamente nei primi anni di applicazione della legge Gelmini, che peraltro la prevedeva come misura transitoria per sanare la condizione dei vecchi ricercatori a tempo determinato, categoria messa a esaurimento – è il concorso cosiddetto “ex art. 24”, che consiste in una selezione riservata agli strutturati di quel settore scientifico-disciplinare che sono già dipendenti dell’Ateneo: in soldoni, i ricercatori a tempo indeterminato “vecchio stampo” (una figura professionale che oggi non esiste più) hanno avuto la possibilità di passare ad associati (più raramente a ordinari) tramite concorsi riservati interni, preclusi a chiunque non fosse già dipendente dell’Ateneo che bandiva. Come detto, questa procedura ha avuto l’indubbio merito di premiare tramite un concorso riservato alcuni ricercatori attivi da molto tempo – e non di rado con ottimi risultati sia scientifici che didattici – all’interno del sistema universitario italiano; tuttavia, essa ha oggettivamente drenato molte risorse verso un tipo di competizione che somigliava più spesso a una promozione ope legis che non a un libero concorso.
L’altra modalità di reclutamento dei professori è quella “ex art. 18”, e consiste viceversa in un concorso aperto anche agli esterni, purché “abilitati”. Tanto per i concorsi “ex art. 18” quanto per quelli “ex art. 24”, il requisito fondamentale per essere ammessi alla selezione è infatti il possesso dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (per la I o per la II fascia), un titolo di idoneità che viene rilasciato da una commissione istituita per ogni macro-settore disciplinare su base appunto nazionale: chiunque può candidarsi, e viene giudicato da un gruppo di 5 ordinari (dotati di particolari requisiti di produttività scientifica) che opera per tutta Italia in modo autonomo dai singoli Atenei, e crea delle liste di “abilitati” idonei al ruolo di professore associato o ordinario. Molti di questi abilitati (in certi settori, la metà) non provengono affatto dai ruoli delle università (non sono cioè ricercatori strutturati), ma lavorano all’estero, oppure come insegnanti di liceo, o ancora come ricercatori indipendenti, o semplicemente godono di assegni o contratti precari. Si può dire che l’ASN serve ed è servita a “scremare” i ricercatori più palesemente inadeguati, lasciandoli fuori dai ruoli degli idonei? In parte sì, anche se non bisogna sottovalutare i problemi, i ricorsi e le iniquità ingenerati dalla costosa ed elefantiaca macchina di questa Abilitazione Nazionale, anche nella sua terza edizione del 2016 (ahimè ben poco riveduta rispetto alle prime due, del 2012 e del 2013): la maldestra composizione disciplinare delle commissioni, l’uso artato di criteri “bibliometrici”, le liste di riviste “buone” e “cattive”, l’”impact factor”, le “soglie” e le “mediane”, e insomma tutta una serie di artifizi volti a deresponsabilizzare le commissioni per individuare metodi fintamente “oggettivi” che premino gli uni o gli altri (ma anche qui, i professori ci hanno messo del loro, onde molti pensano male: perché, per fare un esempio, per diventare professore associato in Filologia bizantina, oltre a una monografia, bastano 6 articoli, mentre per diventarlo in Filologia classica – settore del tutto affine – ce ne vogliono 14?).
In realtà, le grosse magagne dell’Abilitazione Scientifica Nazionale così concepita sono altre, sono due, ed erano chiare sin dal principio: anzitutto l’ASN è “aperta”, cioè non esiste ogni anno un tetto al numero di abilitazioni, ma ogni commissione è libera di concedere quante idoneità vuole, cosicché vi sono settori che pullulano di abilitati proclamati con “manica larga”, e altri che ne hanno invece pochi (il che, come è facile immaginare, crea ingiustizie e squilibri patenti); inoltre, il “listone” unico nazionale degli abilitati non è una graduatoria, ma un semplice elenco indifferenziato e alfabetico, talché il giudizio comparativo tra i vari abilitati è demandato in toto a un altro momento, ovvero appunto ai concorsi (ex art. 18 o ex art. 24) di cui dicevamo prima, che sono banditi su base locale da ogni singola università.
Perché questo sistema – ad onta di pallidi correttivi, come il vincolo di una bassa percentuale di professori da reclutare obbligatoriamente fuori dell’Ateneo – consente di fatto a tutti di “prendere sempre i propri”? Perché se il concorso bandito dal Dipartimento è “ex art. 24” ciò avviene di default, nel senso che – come abbiamo visto sopra – è proprio scritto sul bando che il vincitore dev’essere uno strutturato interno. Se invece è “ex art. 18” vi sono tutta una serie di espedienti per assicurarsi preventivamente dell’esito (alcuni cominciano ad accorgersene e a denunciarlo): commissioni composte da un membro interno e da altri due o quattro membri indicati dal Dipartimento (cioè dall’ordinario interno di riferimento della disciplina, o di una disciplina affine, che spesso è anche il membro interno della commissione), o quando va bene sorteggiati in una piccola rosa proposta dal Dipartimento o dal Senato Accademico (cioè, di nuovo, dall’ordinario interno di riferimento della disciplina, o della disciplina affine); “profili” del vincitore così stringenti da sembrare cuciti addosso a un vincitore predestinato (la legge Gelmini vieta di considerare i “profili” come criteri di valutazione, ma furbescamente certi Regolamenti di Ateneo scrivono il contrario, e dunque certe commissioni fanno riferimento ai profili anche quando non dovrebbero); sistemi di chiamata che lasciano ogni responsabilità non già nelle mani della commissione, bensì in quelle del Dipartimento (in alcune università la commissione è chiamata non a proclamare un vincitore, bensì a stilare una lista di 2 o 3 “idonei” tra gli “idonei”, tra i quali il Dipartimento è poi libero di scegliere a suo piacimento, senza tener conto dei giudizi di valore formulati dai commissari: potete immaginare quale libertà di scelta sussista tra un collega che il Dipartimento conosce da molti anni e un malcapitato – foss’anche più titolato – piombato da fuori). Quasi ognuno di questi passaggi, in quanto normato dai Regolamenti dei singoli Atenei, presenta margini di potenziale conflitto con lo spirito (talora con la lettera) della legge, ma far valere i propri diritti presso un TAR o presso la giustizia ordinaria significa incamminarsi per una strada costosissima e annosa, che in pochi – comprensibilmente – sono disposti a intraprendere.
Qual è il risultato di questi processi? Sebbene gli ultimi dati completi a me noti risalgano a quasi un anno fa, possiamo affermare (è esperienza comune in tutti i settori scientifico-disciplinari) che tra coloro che posseggono l’Abilitazione Scientifica Nazionale, da quando è partito questo sistema (2012), sono riusciti nell’impresa di essere chiamati nel ruolo di professore quasi esclusivamente studiosi che erano a vario titolo già dentro l’università, mentre rari sono i casi di coloro che – pur riconosciuti dalle commissioni come bravissimi, e abilitati con grande lustro – hanno vinto un posto in un Ateneo come homines novi. Questo vale più ancora per gli ordinari che per gli associati, anche in conformità al sullodato desiderio della casta degli attuali ordinari (non tutti, beninteso) di proteggere gelosamente la propria posizione di comando. Ma la ragione di tutto questo è anche, ovviamente, economica: nel sistema dei cosiddetti “punti organico” (che sono le risorse, le fiches, allocate ad ogni dipartimento per finanziare la propria programmazione di assunzioni: insomma, i soldi) un associato che venga da fuori costa 0.7 punti, un ordinario che venga da fuori ne costa 1: una promozione interna, invece, di un docente che l’Ateneo già paga, è molto più economica (0.2 il passaggio da ricercatore a associato; 0.3 da associato a ordinario). Pertanto la mobilità tra le università di fatto è impossibile (non ci sono le risorse), il possesso dell’abilitazione è una medaglietta necessaria ma inutile se non hai già i gradi di un Ateneo, e i concorsi locali sono più blindati di quando l’abilitazione non esisteva e tutti i concorsi funzionavano soltanto su base locale.
È sempre brutto fare esempi, ma ce ne sono di istruttivi. Lasciando stare la maggioranza di concorsi “ex art. 24” (il cui esito è ufficialmente già scritto prima dell’inizio), prendiamo due casi ai poli opposti della penisola: un recente bando di un grande Ateneo del sud (scad. 17.12.2015) metteva a concorso “ex art. 18” ben 33 posti di professore ordinario in discipline di ogni tipo: ebbene, per tutte e 33 le volte hanno vinto professori associati di quell’Ateneo, trasformando de facto questo concorso in un’ope legis mascherata per gli interni. Un meno recente bando di un grande Ateneo del nord (scad. 12.6.2014) metteva a concorso “ex art. 18” ben 61 posti di professore associato, in tutte le discipline dello scibile: ebbene, un breve esame degli esiti mostra che per contare i vincitori “esterni” all’Ateneo in questione (cioè che non erano già ricercatori strutturati o meno all’interno dell’Ateneo in questione) non servono nemmeno le dita di una mano, e che in oltre la metà dei casi il numero dei candidati non era superiore a 2.
Gli esempi potrebbero facilmente essere moltiplicati. Con ciò naturalmente non si vuole affatto mettere in discussione la legittimità di quelle o di altre consimili valutazioni comparative, né la qualità dei vincitori (anche se, diciamo così, alcuni singoli casi potrebbero apparire a un primo sguardo lievemente anomali): forse, però, si può ricavare qualche materia di riflessione per quanto riguarda il sistema nel suo insieme. Intendiamoci, possiamo anche ritenere che vada tutto bene così, che così si salvaguardano le “scuole” e la continuità degli studi e dei centri di ricerca, che così si perpetuano orientamenti e approcci scientifici altrimenti destinati ad annacquarsi. Ma allora – diciamolo chiaro e tondo – perché fare i concorsi in the first place e non fondare tutto il reclutamento sulla semplice cooptazione diretta?
In questo contesto, l’Abilitazione Nazionale è certo una selezione preliminare che consente di evitare gli scandali peggiori; ma viziata com’è dai sullodati problemi (spesso fonte di ricorsi e contenziosi) sulle cosiddette “mediane”, sulla partizione dei settori scientifico-disciplinari e dunque sulla competenza dei commissari, sulle liste di riviste “di fascia A” e “di fascia B”, sull’uso degli indicatori bibliometrici etc., essa diventa un fenomeno quasi marginale, se poi il clou del processo di assunzione – i concorsi – è declinato nel modo che abbiamo visto. Talché ci si può legittimamente chiedere se aver distribuito la medaglietta dell’Abilitazione Nazionale a un gran numero di ricercatori variamente valenti, sia stato un investimento sensato, o non piuttosto una brutta vendita di illusioni ad eterni precari.
f) Vi è infine un sistema di reclutamento diverso, parallelo e totalmente avulso da quello di cui al punto e), e in parte finanziato o incentivato in via straordinaria dal Ministero di anno in anno, in specie con gli ultimi stanziamenti ad hoc: esso concerne chi arriva veramente da fuori, per lo più dall’estero, e si presenta a un dipartimento dopo aver vinto un cospicuo finanziamento (segnatamente per i fondi europei, i progetti ERC-Starting Grant; un altro discorso, in parte diverso, vale per le borse “Levi Montalcini” per il “rientro dei cervelli”, che insistono invece su fondi ministeriali italiani). Questi soggetti, non molto numerosi, sono ambíti dalle università non solo (oserei dire: non tanto) per il loro apporto scientifico, e non solo per il prestigio o il lustro che conferiscono all’Ateneo che li chiama, ma anzitutto per la quantità di denaro che portano con sé, talora un toccasana per i bilanci di Dipartimenti non proprio in salute. È per questo che la loro chiamata diretta senza concorso, per lo più come professori associati, raramente corrisponde al desiderio di impiantare o di promuovere un indirizzo condiviso di ricerca (si racconta di Rettori che hanno telefonato a casa ai vincitori italiani di ERC promettendo loro un posto da associato addirittura all’insaputa dei dipartimenti cui essi avrebbero dovuto afferire), e comunque raramente funge da “volano” o da “ciliegina sulla torta” (questa la metafora usata nell’eccellente, recente servizio di Riccardo Iacona a Presa Diretta) per preesistenti o conseguenti investimenti di fondi pubblici in ricerca: è una sorta di “win for life” per chi ottiene il beneficio, e una sorta di “assalto alla diligenza” per i Dipartimenti, i quali sono disposti a “digerire” chiamate di esterni nella misura in cui sono gratis (perché pagate dai fondi europei e poi dagli incentivi del Ministero), e nella misura in cui per qualche anno le loro casse si rimpinguano di soldi che possono avere ricadute benefiche anche su settori limitrofi a quelli propri dei nuovi docenti. Dopodiché, rimane il docente incardinato (a spese per lo più del Ministero, che continua a erogare i detti incentivi), mentre gli assegnisti e i contrattisti del gruppo di ricerca vengono congedati, in attesa di eventuali nuovi finanziamenti – su quelli italiani non c’è da sperare, visto l’ammontare ridicolo dei fondi stanziati per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, per di più spartiti in rivoli minuscoli.
A commento di questo canale di reclutamento, bisognerebbe osservare che le scelte dell’ERC – organo di alta qualificazione, che è ragionevole ritenere slegato dalle logiche nazionali – non sempre corrispondono a criteri indiscutibili (dopo tutto, lo European Research Council giudica la bontà e la fattibilità di un progetto, non dà sic et simpliciter la patente di docente universitario al Principal Investigator del progetto stesso); che non è affatto detto che i ricercatori che hanno avuto successo all’estero siano sempre automaticamente più bravi di quelli che magari per anni, per scelta o magari anche solo per mancanza di possibilità, non sono emigrati e hanno lavorato alacremente in Italia (penso in specie a chi ha prodotto ottima ricerca senza aderire a una cordata precisa, e dunque rimanendo sostanzialmente esterno alle bande dell’università, oppure finendo per essere emarginato non per proprio demerito ma per arbitrarie decisioni dei superiori); e che talvolta i vincitori ERC – che già si sottraggono ai concorsi nazionali – non sono nemmeno in possesso dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, che è viceversa richiesta a tutti coloro che aspirano a fare i professori: si crea così una oggettiva disparità nel trattamento, che ingenera inevitabili malumori anche quando i citati vincitori sono ricercatori di assoluto valore. E così, questo tipo di reclutamento libero e “dall’esterno”, che è praticamente l’unico che allo stato immette davvero nuova linfa – e persone di norma ben reputate all’estero – negli Atenei italiani, di fatto viene a interferire non virtuosamente con un sistema, quello del reclutamento ordinario, tra i più sclerotizzati.
g) È inutile dire che esistono eccezioni a queste trafile, e che alcuni bravi ricercatori si sono imposti anche per le vie ordinarie dei concorsi, soprattutto quando le commissioni sono state rigorose e soprattutto quando le sedi di arrivo – per qualsivoglia motivo – non hanno voluto o potuto imporre “i loro” a tutti i costi. Così come è indiscutibile che alcune università abbiano cercato di compensare questi meccanismi tramite “buone pratiche” di assunzioni da fuori, di calls internazionali et sim. (anche se talora tutto questo è andato a detrimento dei bravi ricercatori interni di quelle università, che non hanno ritrovato un’eguale apertura in altri Atenei e dunque si trovano nell’impasse). Tuttavia, quello che ho provato a descrivere ai punti d) ed e) è il funzionamento “standard”, che non tiene nemmeno conto delle situazioni davvero più “patologiche” (scambi di favori, pastette multiple, “cupole” nazionali etc.), che spesso occupano le cronache (e forse anche l’ANAC di Cantone) per la loro gravità, pur essendo oggettivamente in numero limitato. Quanto volevo argomentare è che, al di là della spettacolarizzazione, non serve andare in caccia di casi eccezionali: è tutto il sistema, per come è stato concepito fin qui (e torno a dire, non solo per demerito dal legislatore, ma anche per le pratiche della comunità accademica che lo ha applicato), a premiare per lo più secondo criteri di appartenenza e di scarsa apertura – o, in altri casi, di semplice convenienza economica.
Si potrà sollevare un’obiezione tecnica: finora il gran numero di vincitori “interni” (nei concorsi riservati ex art. 24, ma anche in quelli teoricamente “aperti” ex art. 18) era dovuto alla necessità di “sistemare” i ricercatori a tempo indeterminato onde evitare di farli diventare dei residuati ingestibili dal sistema; una volta messi a posto tutti gli abilitati fra costoro, si dirà, sarà inevitabile che vengano assunti associati e ordinari non strutturati. Lasciando stare il fatto che i primi candidati “nuovi” a essere assunti nei concorsi da associato e da ordinario saranno i ricercatori di tipo A e di tipo B assunti secondo i concorsi inevitabilmente “mirati” e “profilati” descritti sopra al punto d, questa conclusione è comunque falsa, per almeno tre motivi: anzitutto, nonostante le assunzioni degli ultimi anni, non è affatto vero che tutti i “vecchi” ricercatori a tempo indeterminato siano stati sistemati, e certamente siamo lontanissimi da questo per quanto riguarda la promozione a ordinari degli associati abilitati: per tali promozioni bisognerà impegnare ancora molte risorse, che graveranno per intero sui bilanci degli Atenei stante la fine degli incentivi ad hoc previsti dalla legge Gelmini (gli incentivi come il cosiddetto “piano ordinari” varato dal governo Renzi, sono palliativi di ben poco conto). Inoltre, il numero degli abilitati continuerà ad aumentare man mano che si avviano nuove tornate del concorso di Abilitazione Scientifica Nazionale (recentemente, come detto, è iniziata la terza campagna di ASN, che comincerà a dare i primi frutti nella tarda primavera 2017), e dunque il problema si porrà in termini sempre più acuti man mano che la platea degli aventi diritto si allargherà, com’è peraltro naturale che avvenga. Infine – il punto più spinoso – come detto poco sopra le risorse da investire per chiamare un associato o un ordinario “da fuori” – come ci si augura avvenga al fine di “aprire” i singoli atenei e di non tagliare le gambe a intere generazioni di studiosi, o costringerli alla fuga più ancora di quanto non sia già avvenuto – sono molto più ingenti rispetto a quelle bastevoli per promuoverlo internamente, talché nessun progresso potrà verificarsi rispetto a quanto è stato fatto fin qui, a meno di ragguardevoli incrementi nel finanziamento della ricerca in questo Paese, anche in termini di investimento sul personale. Incrementi dei quali non vi è per ora la benché minima traccia.
h) In conclusione, non dimentichiamoci da dove siamo partiti, ovvero il problema centrale del sottofinanziamento (punto a), che combinato ai guasti del sistema del reclutamento appena descritti rende il sistema universitario così seriamente ingessato. Ciò che mostra bene la cifra della politica del governo Renzi è che questa situazione viene scientemente occultata tramite una serie di annunci sensazionalistici atti a gettare fumo negli occhi: il finanziamento degli studi universitari di 500 liceali (si deve pensare, a prescindere dal reddito) oblitera così, concentrandosi sulle sedicenti “eccellenze”, quel piano di interventi a largo raggio sul diritto allo studio che era il cuore del programma del PD per l’università nelle elezioni del 2013 (all’epoca se ne occupavano Maria Chiara Carrozza e Marco Meloni, entrambi vittime di odiosi repulisti); il finanziamento delle 500 cosiddette “cattedre Natta” (il cui funzionamento è ancora tutto da decidere, ma – si vocifera – sarà addirittura centralizzato nelle mani dell’esecutivo che nominerà direttamente le commissioni, attese ad operare secondo criteri di enorme discrezionalità) oblitera non solo i buchi ben maggiori negli organici, ma anche il problema di un passaggio di grado atto a svecchiare la classe degli ordinari e a immettere strutturalmente (e non una tantum) nuova linfa nelle posizioni apicali dell’università; il mantra della – in sé auspicabile – valutazione degli Atenei (il famigerato sistema “AVA”, le paventate visite delle Commissioni ministeriali etc.) produce in realtà, in luogo di pratiche virtuose, diversi effetti distorsivi sul sistema, e soprattutto una quantità enorme di burocrazia in larga parte inutile che grava gli organi di governo degli Atenei (e dunque i professori, sempre più distratti dalla loro attività di insegnamento e di ricerca) di carichi spesso ingestibili, a fronte peraltro di norme che mutano continuamente: con tanti saluti all’idea di “semplificazione” e “snellimento”; infine, i mirabolanti annunci di investimenti miliardari in ricerca si rivelano regolarmente un mero riciclaggio di vecchi fondi, aumentati magari dalle provvigioni speciali per il condendo Human Technopole, un accrocco su cui la senatrice Elena Cattaneo ha detto tutto ciò che c’era da dire.
Chi scrive – a differenza di voci autorevoli che fanno opinione su quotidiani un tempo definibili di sinistra – non ritiene per nulla saggio incamminarsi d’emblée sulla strada di una liberalizzazione e competizione selvaggia fra gli Atenei (sul modello del “pragmatismo anglosassone”), che in un Paese così poco flessibile e competitivo come il nostro (e in cui così limitato è il ruolo degli investimenti privati in ricerca di base, e così malfermo il ruolo dell’etica pubblica) genererebbe di bel nuovo disastri inenarrabili, soprattutto in alcune aree d’Italia, provocando lo smantellamento di una rete largamente imperfetta a vantaggio di un sistema darwiniano dai contorni ancora più incerti, guidato per lo più dai medesimi manovratori del precedente, e destinato a soccombere a una lunghissima e confusa fase di transizione. Più modestamente, si potrebbe cominciare a modificare quel che si può, per esempio rendendo veramente più “aperti” i concorsi universitari tramite un paio di modifiche strutturali imposte a livello centrale (abilitazioni “chiuse”; commissioni sorteggiate o costituite in modo trasparente; pubblicità ai concorsi sui siti nazionali e internazionali; impossibilità di carriera interna; finanziamento reale delle posizioni anche se vince un “esterno”), così da favorire una vera mobilità dei ricercatori, e una competizione forse finalmente degna del nome. Qualunque sia il meccanismo scelto, di un cambio di passo in questo senso il sistema italiano della ricerca – e la sua reputazione internazionale, cui il dr. Cantone è così sensibile – ha urgente bisogno; si tratterebbe di segnali incoraggianti anche per i giovani che sempre più disperano di trovare in questo Paese un futuro alla loro altezza.