Nei consultori non possono esserci obiettori di coscienza

Lo ha stabilito il Tar del Lazio esprimendosi su un caso che ha coinvolto alcune organizzazioni antiabortiste e la regione Lazio

Manifestazione in difesa della legge 194 in piazza Vanvitelli a Napoli (ANSA/CIRO FUSCO/DRN)
Manifestazione in difesa della legge 194 in piazza Vanvitelli a Napoli (ANSA/CIRO FUSCO/DRN)

Il 3 agosto il Tar del Lazio ha depositato una sentenza (la numero 8990 del 2016) considerata molto importante per i diritti delle donne e per la difesa della legge 194, approvata nel 1978. La legge 194 dovrebbe garantire alle donne la possibilità di abortire, ma nella realtà rimane spesso inapplicata per l’elevato numero di medici obiettori di coscienza. La sentenza di mercoledì stabilisce che nei consultori pubblici del Lazio non ci possano essere obiettori di coscienza: i medici che lavorano in queste strutture devono garantire alle donne che scelgono di abortire i certificati necessari per l’operazione; inoltre non possono opporsi alla prescrizione dei contraccettivi, compresi quelli di emergenza (la cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo” e la “pillola del giorno dopo”). Nel Lazio gli obiettori di coscienza sono il 90 per cento dei medici e in molti ospedali pubblici non si fanno interruzioni di gravidanza, come imporrebbe invece la legge a tutti gli ospedali non religiosi.

Come si è arrivati alla sentenza
Nel giugno del 2014 il presidente del Lazio Nicola Zingaretti firmò un decreto sulla riorganizzazione dei servizi medici per la salute delle donne. Nel decreto si diceva che se per legge un medico poteva essere un obiettore e dunque rifiutarsi di praticare un’interruzione volontaria di gravidanza, all’interno dei consultori familiari i medici non potevano sottrarsi ai loro compiti di assistenza e di cura.

«In merito all’esercizio dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi si ribadisce come questa riguardi l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria di gravidanza. Al riguardo, si sottolinea che il personale operante nel consultorio familiare non è coinvolto direttamente nell’effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare Ivg.

Per analogo motivo il personale operante è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici».

Il Movimento per la vita (organizzazione molto impegnata nell’attivismo cosiddetto “pro-life”) e altre associazioni di medici cattolici presentarono ricorso contro il decreto di Zingaretti, sostenendo che il ruolo dei consultori non dovesse essere quello di «preparare l’interruzione di gravidanza, ma fare il possibile per evitarla». Queste organizzazioni dissero inoltre che la delibera regionale violava «il diritto fondamentale all’obiezione di coscienza» e anche le convenzioni europee; e che era illegittimo obbligare qualcuno a prescrivere e a somministrare contraccettivi post-coitali, «in quanto tale espressione comprenderebbe sicuramente preparati contenenti sostanze idonee a provocare la morte dell’embrione già formato, rendendo inospitale l’endometrio». In realtà il decreto della regione Lazio si basava su quanto scritto nella Legge 194, che al comma 3 dell’articolo 9 dice:

«L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento».

Nonostante la legge 194, la situazione delle strutture sanitarie italiane non è per niente ottimale. I consultori sono molti meno di quelli previsti dalla legge (cioè 1 ogni 20mila abitanti), e accanto ai consultori pubblici ci sono i consultori privati accreditati, che sono per lo più cattolici ma sostenuti con fondi pubblici. In moltissimi casi né i consultori pubblici né quelli privati e accreditati garantiscono tutti i servizi di cui dovrebbero beneficiare le donne. Va precisato che nei consultori familiari non si pratica materialmente l’interruzione volontaria di gravidanza, ma, tra le altre cose, si fanno gli accertamenti medici dello stato di gravidanza, le attività di certificazione dello stato di gravidanza e l’eventuale richiesta di interruzione volontaria entro i tempi previsti. In un’inchiesta del settembre del 2015, l’Espresso scriveva però:

«In molti casi il consultorio pubblico è diventato un front-office dei militanti pro-vita, per intercettare le donne intenzionate a interrompere la gravidanza e demonizzarne questa scelta per spingerle verso i loro Centri per la vita (Cav), il cui scopo è convincere a seguire la gravidanza, con aiuti in denaro e altre forme di assistenza, compresa l’accoglienza temporanea. Sono circa il 7 per cento del totale, secondo dati dello stesso Movimento per la vita, le donne che i consultori pubblici inviano nei Cav per far loro cambiare idea.

I Cav sono strutture private gestite da volontari e sostenute al 68 per cento con soldi pubblici, di cui il 58 sono versati da comuni, asl e province, che in alcuni casi inviano a queste strutture anche vittime di tratta e di diverse forme di disagio; mentre per l’altro dieci per cento si tratta di non meglio definiti “contributi pubblici vari”. Attualmente in Italia ce ne sono 355, presenti principalmente in Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia».

La sentenza del Tar
Il Tar del Lazio ha dato ragione alla regione Lazio e ha respinto il ricorso del Movimento per la Vita giudicandolo «infondato». I giudici hanno innanzitutto scritto che con il ricorso si è cercato «di rimettere in discussione posizioni abortiste ed antiabortiste che hanno già trovato una loro composizione nella legge n. 194 del 1978 le cui disposizioni sono state confermate più volte dalla Corte Costituzionale in sede di pronunce sulla ammissibilità dei relativi referendum abrogativi».

I giudici poi hanno chiarito le cose su cui non è possibile fare obiezione: la certificazione dello stato di gravidanza che è necessaria per l’aborto e la certificazione che attesta la volontà della donna interessata a interrompere la gravidanza. Queste due attività, secondo il Tar, non possono essere rifiutate proprio perché non sono incluse dalla legge fra le azioni il cui compimento è materia di possibile obiezione: non hanno cioè a che fare con l’interruzione materiale della gravidanza e rientrano invece nell’assistenza citata dalla legge 194 «antecedente e conseguente all’intervento».

Dunque, scrive il Tar:

«Sostanzialmente quindi è da escludere che l’attività di mero accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico di un Consultorio si presenti come atta a turbare la coscienza dell’obiettore, trattandosi, per quanto sopra chiarito, di attività meramente preliminari non “legate in maniera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico” al processo di interruzione della gravidanza».

Il Tar dice anche che:

«Non pare proprio che tale funzione certificativa (…) costituisca un baluardo insormontabile all’esercizio dell’obiezione di coscienza del medico ginecologo che aspiri a svolgere la professione all’interno di tale struttura. Anzi le attività di attestazione dello stato di gravidanza e di certificazione della richiesta di effettuare l’IVG inoltrata dalla donna, e che, per quanto visto sopra non possono essere considerate direttamente causative dell’interruzione di gravidanza, costituiscono momenti dell’iter da seguire per l’accesso alle pratiche abortive che, con quegli atti non iniziano, potendo la donna discostarsene».

Il Tar ha anche detto ai ricorrenti che le cosiddette “pillole del giorno dopo” non sono farmaci abortivi ma semplici contraccettivi, come stabilito dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e dalla sua omologa europea (EMA). Infine, i giudici hanno contestato la definizione di “consultorio” data dal Movimento per la Vita, cioè quella di «fare tutto il possibile per evitare l’interruzione di gravidanza». Tra le funzioni dei Consultori familiari (stabilite da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri nel novembre 2001) rientrano sia l’educazione alla maternità responsabile e la somministrazione dei mezzi necessari per la procreazione responsabile, sia l’assistenza per l’interruzione volontaria della gravidanza.

Reazioni
Nicola Zingaretti ha detto di essere soddisfatto per la sentenza. L’associazione Luca Coscioni, che promuove e sostiene campagne per la libertà di cura e in difesa dei diritti, ha chiesto a tutti i presidenti delle Regioni italiane di seguire l’esempio del Lazio, affinché la legge sull’aborto sia applicata correttamente. Gian Luigi Gigli, presidente del Movimento per la Vita, ha detto invece che intende presentare ricorso al Consiglio di Stato.

Un’infografica che mostra i dati sull’obiezione di coscienza in Italia

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