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  • Martedì 28 giugno 2016

I referendum non sono sempre una buona idea

Dopo i molti giudizi negativi su Brexit, Il Washington Post spiega come spesso non siano la forma più pura di democrazia, ma un danno per la democrazia

di Emily Badger– The Washington Post

(Christopher Furlong/Getty Images)
(Christopher Furlong/Getty Images)

Da quando giovedì scorso gli elettori britannici hanno deciso di lasciare l’Unione Europea, sono stati discussi intensamente i rischi di un referendum su un tema così complesso, esteso e di grande portata. I politici che avevano la responsabilità di spiegare quale fosse la posta in gioco hanno riconosciuto di essere forse stati vaghi su alcune delle conseguenze del voto. Venerdì, Nigel Farage, capo dello UK Independence Party (UKIP, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito), a solo un’ora dalla conferma dell’esito del referendum, ha ammesso che una delle promesse principali fatte agli elettori dalla campagna per il Leave era in realtà infondata: i sostenitori di Brexit avevano promesso che il denaro che attualmente il Regno Unito invia all’Unione Europea, si è parlato di 350 milioni di sterline (circa 421 milioni di euro), sarebbe stato destinato al sistema sanitario nazionale. L’ex sindaco di Londra Boris Johnson aveva addirittura girato il paese dentro un pullman per sbandierare il messaggio. Venerdì Farage ha definito quell’affermazione un «errore» (l’incredula giornalista che lo intervistava gli ha poi chiesto: «Crede che stamattina al loro risveglio le persone scopriranno altre cose che non succederanno, dopo aver votato ieri per uscire dall’Unione Europea?»).

Ai residenti della Cornovaglia, una contea relativamente povera dell’Inghilterra, era stato promesso che in caso di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, la contea non avrebbe perso nessuna delle sovvenzioni dell’Unione Europea, da cui dipende molto. Come racconta Rick Noack del Washington Post, le autorità della Cornovaglia ora sono preoccupate che nemmeno questa promessa fosse vera. In modo prevedibile, dopo il forte calo della sterlina e delle azioni internazionali di venerdì, i mezzi di informazione britannici erano pieni di storie di elettori che raccontavano di essere pentiti della loro decisione. Alcuni di loro hanno detto di aver semplicemente  pensato che il loro sarebbe stato un voto di protesta, e che non si aspettavano che il Regno Unito avrebbe davvero lasciato l’Unione Europea. Altri hanno chiamato le commissioni elettorali chiedendo se fosse possibile cambiare il proprio voto.

Nel frattempo, quasi quattro milioni di cittadini britannici hanno firmato quella che è stata sbrigativamente ed erroneamente definita come una petizione per la ripetizione del referendum. I critici hanno sottolineato con severità come l’intera crisi attuale abbia avuto origine dal tentativo del primo ministro David Cameron di sfuggire a una grana politica nel 2013: che difficilmente si può considerare come una motivazione ragionevole per fare un esperimento di democrazia diretta di questa portata.

Tutto questo, forse, era prevedibile: alcuni politologi e storici avevano già avvertito che un semplice referendum pubblico “dentro o fuori” rischia di essere un modo pessimo di prendere una decisione che ha ripercussioni così complesse. Il referendum può sembrare la forma più pura di democrazia diretta, e dopo il voto è stato celebrato come tale da molti dei sostenitori della campagna per il Leave: ma lo storico della Princeton David A. Bell quattro anni fa aveva scritto un articolo sul New Republic nel periodo in cui la Grecia si stava preparando a un referendum sul piano di aiuti economici internazionali, in cui sosteneva che molto più spesso i risultati dei referendum sono in realtà anti democratici. Bell divide i referendum in due categorie: una è quella delle questioni fondamentali legate alla sovranità (il Quebec dovrebbe diventare indipendente dal Canada? La Scozia dovrebbe separarsi dalla Gran Bretagna?). I referendum di questo tipo sono appropriati, dice Bell: «Rappresentano casi in cui il potere sovrano – che in definitiva è detenuto dal popolo, ma viene mediato dalle strutture previste dalla Costituzione – torna temporaneamente e  in forma diretta alle persone, in modo che possano modificare e sostituire le strutture stesse». Poi, però, ci sono i referendum su questioni che verrebbero altrimenti gestite dagli organi legislativi che i cittadini hanno già eletto come loro rappresentanti.

È senza dubbio allettante considerare questa seconda forma di referendum come un modo di vigilare sulle pratiche spiacevoli che troppo spesso infettano i sistemi rappresentativi moderni. Ma per quanto i promotori dei referendum sostengano di agire in nome delle riforme democratiche, le loro azioni di solito finiscono per danneggiare la credibilità delle istituzioni democratiche stesse. Questa tendenza non è casuale: visto il funzionamento dei referendum, è inevitabile. I referendum, innanzitutto, tolgono questioni relativamente tecniche ai legislatori che hanno il tempo e le competenze per affrontarle, per darle agli elettori che invece non ne hanno.

I referendum, inoltre, tendono a rendere l’attività legislativa futura più difficoltosa trasformando scelte politiche in decisioni costituzionali, che non si possono poi rimuovere con facilità. Secondo Bell, referendum come questi intaccano la legittimazione degli organi legislativi suggerendo l’idea che le vere democrazie possano venire esclusivamente dal popolo in forma diretta.

In un mondo dove tutte le decisioni che dovrebbero essere prese dai legislatori avvengono invece attraverso i referendum si arriva a una situazione come quella della California, uno stato dove le consultazioni regolano cosa succede alle obbligazioni finanziarie, alle tasse sui sacchetti e addirittura ai progetti di costruzione dei palazzi. Nel 1978, gli elettori della California decisero generosamente di imporre un limite alla propria imposta patrimoniale con una votazione, modificando la Costituzione dello stato e ostacolandone da allora la capacità di creare entrate e politiche abitative ragionevoli. L’anno scorso, la decisione della Corte Suprema americana di sostenere i matrimoni gay ha implicato un altro lato negativo dei referendum: concessa la possibilità di una votazione, le maggioranze possono anche arrivare a limitare i diritti delle minoranze.

Per tornare alla distinzione sui due tipi di referendum fatta da Bell, il voto su Brexit rientra verosimilmente in entrambe le categorie. I sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea considerano senza dubbio la questione dal punto di vista della sovranità e dell'”indipendenza” dall’Europa (la pensa così anche Donald Trump, che ha lodato la decisione degli elettori britannici di «riprendersi il loro paese»). Ma la proposta del referendum ha anche sollevato il tipo di dibattiti complicati per il cui chiarimento eleggiamo dei rappresentanti: i benefici che derivano dall’adesione all’Unione Europea giustificano quei trasferimenti di denaro? I costi dell’uscita dall’UE danneggeranno seriamente l’economia britannica? L'”indipendenza” porterà a nuove forme di instabilità su cui gli elettori non sono stati informati a sufficienza? Giovedì, prima del voto, il giornalista del quotidiano britannico Guardian Martin Kettle aveva scritto che quello su Brexit avrebbe dovuto essere un referendum sui referendum, che oggi sono «l’arma preferita dei partiti populisti di destra e sinistra».

Nella nostra politica, in determinate circostanze, possono esserci delle tesi convincenti a sostegno di un referendum. Ma queste tesi devono essere più convincenti del sostenere semplicemente che in passato abbiamo tenuto altri referendum o che gran parte dell’opinione pubblica ne vorrebbe uno. Le persone sono sempre d’accordo all’idea di poter dire la loro. Tuttavia, non è per niente scontato che un sistema incentrato sui referendum possa rafforzare la fiducia nella democrazia. Né l’Irlanda né la Svizzera, dove i referendum sono più frequenti, sembrano dimostrarlo. La Costituzione della Germania è solidamente radicata nel parere opposto. E se una questione è sufficientemente importante da richiedere un referendum, perché allora non lo è abbastanza da richiedere un quorum alto o una maggioranza qualificata degli elettori, come dovrebbe essere di norma?

© 2016 – The Washington Post