La rivolta di Soweto, 40 anni fa

E la storia della fotografia scattata quel giorno in Sudafrica, che fece il giro del mondo

Il 16 giugno del 1976 a Soweto, un quartiere abitato quasi esclusivamente da neri all’estrema periferia di Johannesburg, in Sudafrica, morirono centinaia di persone: erano studenti e studentesse che avevano organizzato una protesta contro il governo segregazionista, e che vennero massacrati dalla polizia. Ancora oggi non si conosce il numero esatto dei morti di quel giorno e delle proteste dei giorni successivi: forse 200, forse più del doppio. Una delle fotografie scattate durante quella rivolta fece il giro del mondo e contribuì a far crescere il sostegno internazionale per il movimento anti-apartheid, ma si dovettero attendere altri quindici anni prima che l’intero sistema della segregazione razziale venisse smantellato, quando nel 1991 il primo ministro boero Frederik Willem de Klerk chiamò al suo fianco il capo dell’African National Congress Nelson Mandela.

Soweto

Umbiswa Makhubo con il corpo di Hector Pieterson in braccio, in una fotografia di Sam Nzima (Sam Nzima/Archive)

Negli anni Settanta il mondo era a conoscenza dell’apartheid, la segregazione razziale tra bianchi e neri in Sudafrica. Il Sudafrica era governato dal Partito Nazionale che rappresentava i cosiddetti boeri, i primi colonizzatori del paese in maggioranza olandesi, che avevano creato una loro comunità autonoma e avevano sviluppato una loro lingua, l’afrikaans. Il Partito Nazionale aveva vinto le elezioni alla fine della Seconda guerra mondiale e aveva instaurato un regime segregazionista. L’obiettivo, secondo il primo ministro boero del tempo Hendrik Frensch Verwoerd, era isolare i diversi gruppi etnici del Sudafrica lasciando che ognuno si sviluppasse in un proprio contesto autonomo e isolato. Verwoerd spiegò che il controllo doveva spettare ai bianchi, proprio per il ruolo fondamentale che avevano avuto nella “nascita” del Sudafrica.

Nel paese vennero creati i bantustan, territori separati riservati alle popolazioni nere delle diverse etnie che occupavano una parte molto piccola dell’intero territorio. I neri che continuarono a vivere nelle aree “bianche” (circa il 50 per cento) persero gradualmente i loro diritti civili. L’applicazione di una politica sempre più apertamente razzista causò gravi contrasti interni e fece perdere al paese il sostegno della comunità internazionale. Negli anni Sessanta – il Sudafrica intanto aveva ottenuto la piena indipendenza dal Regno Unito – iniziò una campagna di sanzioni economiche da parte della comunità internazionale e nel 1973 le Nazioni Unite dichiararono l’apartheid un crimine contro l’umanità. Il più importante movimento di opposizione al governo, l’African National Congress, era stato da tempo dichiarato illegale; il suo leader, Nelson Mandela, si trovava in prigione.

Di tutto questo, i bambini e i ragazzi che vivevano negli anni Settanta a Soweto avevano una percezione lontana. Il quartiere era abitato quasi esclusivamente da neri: molti di quei bambini, fatta eccezione per il commissario di polizia o l’assistente sociale, non avevano mai incontrato un bianco nella loro vita. Tutto cambiò quando il governo dei boeri approvò un decreto con cui imponeva alle scuole dei neri di adottare la lingua afrikaans, “la lingua degli oppressori”, al posto della lingua inglese. Nell’aprile del 1976 ci furono alcuni scioperi, poi il 16 giugno del 1976 circa 20 mila studenti parteciparono a una grande manifestazione. Tra loro c’era anche una ragazza di venticinque anni, Antoinette Sithole. La notte prima del corteo Antoinette Sithole stirò la propria uniforme scolastica e riempì lo zaino con cartelli e striscioni di protesta. Aveva un fratello di tredici anni, Hector Pieterson, ma era stato stabilito che gli studenti più giovani si sarebbero dovuti tenere alla larga dalle proteste.

La mattina del 16 giugno faceva freddo, in Sudafrica era inverno; intorno alle sei del mattino Antoinette Sithole uscì di casa per andare al punto di ritrovo prestabilito. Tutto si doveva svolgere in segreto per prevenire l’intervento della polizia, ma uno degli organizzatori del corteo aveva dato alcuni dettagli ai media. Sam Nzima, un fotoreporter di 42 anni che lavorava per The World, “un giornale fatto da neri per neri”, ricevette l’incarico di seguire la manifestazione. La marcia partì e la polizia arrivò sul posto: cercò prima di deviare il corteo, poi di disperderlo con i gas lacrimogeni. «Tutti cominciammo a correre nella confusione, cercando un riparo e precipitandoci nelle case», ricorda Antoinette Sithole. Quando la ragazza strisciò fuori dal nascondiglio che aveva trovato, vide suo fratello minore dall’altra parte della strada: «Non doveva essere lì. Era troppo giovane per capire cosa stava realmente accadendo». Lo raggiunse, lo rassicurò, gli disse che avrebbero trovato il modo di tornare a casa e poi riprese a marciare: un gruppo di studenti si era nuovamente raggruppato e aveva cominciato a cantare l’inno di liberazione che era stato vietato dal governo. Sam Nzima era proprio accanto a loro e vide un poliziotto bianco puntare la pistola direttamente sulla folla. Cominciarono gli spari.

Nella confusione Antoinette Sithole vide un uomo correre e passarle accanto: aveva un bambino tra le braccia, riconobbe le scarpe di suo fratello. Cominciò a correre anche lei accanto a quell’uomo, lo aiutò a caricare Hector su un’auto per portarlo in ospedale, ma era già troppo tardi.

Quella stessa mattina Ntsiki Makhubo e sua madre stavano tornando da Johannesburg. Arrivate alla stazione di Soweto trovarono una gran confusione e seppero che cosa era successo. A Ntsiki venne detto che suo fratello maggiore, Mbuyisa Makhubo, diciotto anni, era morto o era stato gravemente ferito negli scontri. I vicini di casa lo avevano visto tornare da scuola, poi correre fuori e andare al corteo. Poi lo avevano visto zoppicare tutto sporco di sangue. Mbuyisa Makhubo non aveva partecipato alle proteste, ma quando aveva sentito gli spari era corso fuori, in mezzo alla folla, per aiutare i feriti. Il sangue che aveva sui vestiti era quello di Hector Pieterson.

soweto1Nzima, il fotografo, dal momento in cui il poliziotto bianco cominciò a sparare al momento in cui Hector Pieterson venne caricato in macchina, scattò sei foto. Poi riavvolse il rullino e lo nascose in una calza. Gli studenti stavano reagendo alle violenze, avevano preso un poliziotto, lo avevano messo a terra e lo avevano «macellato come una capra». Gli diedero fuoco, ricorda Nzima, che fotografò anche quella scena: altri poliziotti lo costrinsero però ad aprire la macchina e distruggere il rullino. «La foto del poliziotto ucciso dagli studenti andò distrutta». Qualche ora dopo Nzima sviluppò il rullino che aveva nascosto. Ricorda che nella redazione del giornale si discusse molto se pubblicare o no la foto di Mbuyisa Makhubo con il bambino morto tra le braccia e sua sorella maggiore accanto. «Se usiamo questa immagine, scateneremo una guerra civile in Sudafrica», disse qualcuno. «Non c’è miglior esempio per dire quello che è successo a Soweto. I bambini sono stati uccisi dalla polizia dell’apartheid», disse qualcun altro. Vinse quest’ultimo argomento: The World uscì in serata con un’edizione straordinaria e il giorno dopo quella foto finì sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo.

Ci fu una reazione immediata della comunità internazionale e dell’opinione pubblica. Furono inasprite le sanzioni economiche contro il Sudafrica, le azioni della polizia furono condannate anche dai bianchi sudafricani e gli studenti universitari nei giorni successivi scesero in piazza, di nuovo, per protestare. Ma le cose per Sam Nzima, Antoinette Sithole e Mbuyisa Makhubo non furono semplici.

Pochi giorni dopo la pubblicazione della foto, Nzima, che ora ha 83 anni, cominciò a ricevere minacce dalla polizia, si licenziò, scappò da Soweto, venne rintracciato e costretto agli arresti domiciliari: non ha mai più scattato una foto in vita sua. Il governo fece chiudere The World e ne perquisì la redazione. Si pensa che i negativi di Nzima siano stati distrutti. Antoinette Sithole, che oggi ha 55 anni, seppellì suo fratello minore due settimane più tardi, il 3 luglio. Mbuyisa Makhubo, la cui famiglia era molto vicina a Mandela e all’ANC, venne accusato di essersi messo in posa per la foto e di fare propaganda contro il governo: ebbe una grave depressione e lasciò il paese. L’ultima volta che si fece vivo con la famiglia fu nel 1978: inviò una lettera dalla Nigeria in cui diceva, a testimonianza di una chiara instabilità mentale, che stava progettando di camminare fino alla Giamaica.

Nel 2002 è stato aperto un museo sui fatti di Soweto dedicato a Hector Pieterson; oggi è visitato da 90 mila persone all’anno. Nel 1991 l’Unione Africana ha proclamato il 16 giugno la Giornata del bambino africano.