La meritocrazia fino a un certo punto

Se ci diciamo che talento e impegno devono bastare, rischiamo di smettere di incentivarli, dice un economista americano

L'aula di una scuola a Brescia, il primo giorno di scuola, 14 settembre 2009.
(©Lapresse)
L'aula di una scuola a Brescia, il primo giorno di scuola, 14 settembre 2009. (©Lapresse)

Robert H. Frank è un titolato professore di economia alla Cornell University che ha scritto un libro intitolato Success and Luck: Good Fortune and the Myth of Meritocracy (“Successo e caso: la fortuna e il mito della meritocrazia”), e ne ha spiegato alcuni dei temi in un articolo sul New York Times, di cui è collaboratore.
La tesi principale di Frank – che ha pubblicato già altri studi sul rilievo della casualità e dell’irrazionalità nelle dinamiche di cause ed effetti – è che la cosiddetta “meritocrazia” sia un concetto sopravvalutato, dal momento che alla stessa formazione del preteso “merito” concorrono fattori che prescindono dalla volontà, dall’applicazione, e dal merito così come lo intendiamo. Le persone di successo, spiega Frank, diventano tali per fattori e ragioni spesso accidentali, oppure indipendenti da loro. Non è solo in una vincita alla lotteria che si dispiega quella che chiamiamo “fortuna” – ovvero che ti capiti qualcosa di buono per ragioni volatili e autonome dal tuo impegno per farle capitare – ma anche in molti casi della vita, “ed è facile poi costruire narrazioni che descrivono un successo come inevitabile. Ma queste narrazioni sono quasi sempre ingannevoli, e questo ha implicazioni spiazzanti per le politiche pubbliche”.

Frank parte dall’esempio della Gioconda di Leonardo, la cui notorietà mondiale senza uguali – rispetto ad altre opere di Leonardo altrettanto valide – beneficiò moltissimo dal suo furto nel 1911 e dal successivo arresto del suo ladro, eventi che ebbero entrambi grandissime attenzioni internazionali rendendo familiare quell’immagine in mezzo mondo. “Come Kim Kardashian, si può dire che la Gioconda sia famosa per essere famosa”, dice Frank.
Simili “destini” riguardano anche le biografie degli umani: “quasi tutte le traiettorie di carriera seguono una complessa sequenza di tappe ciascuna delle quali dipende dalle precedenti. Se una qualunque fosse stata diversa, anche l’intero percorso sarebbe stato quasi certamente un altro”. Ogni storia di successo, dice Frank, comprende una quota di fortuna.

Già la data di nascita, spiega Frank per essere concreto, è un fattore rilevante. Secondo uno studio americano del 2008, i bambini nati d’estate tendono a essere i più giovani della loro classe, e quindi ad assumere più raramente ruoli di leadership nelle scuole superiori: un’altra ricerca ha indicato che per questo, più tardi, sarà meno probabile che ottengano i ruoli professionali migliori. Una ricerca del 2012 mostra che gli alti dirigenti americani nati a giugno e a luglio sono un terzo di quelli che ci si aspetterebbe.
Un altro fattore con simili conseguenze è l’iniziale del cognome: si è dimostrato che nei dipartimenti universitari di Economia degli Stati Uniti è più probabile essere promossi a una cattedra se il proprio cognome inizia con le prime lettere dell’alfabeto. Chi ha fatto questo studio attribuisce questo dato all’abitudine di elencare i cognomi dei coautori delle ricerche scientifiche in ordine alfabetico, rendendo più visibili certi cognomi rispetto ad altri: per le cattedre di Psicologia, dove questa regola non è applicata, l’effetto non si verifica.

Questo ovviamente non significa che il talento e l’impegno non siano fattori rilevanti, soprattutto nei settori più competitivi. Proprio per questo è prioritario cercare di sfruttarli più possibile: non potendo influenzare molti accadimenti, il miglior consiglio per ottenere successo secondo Frank è “sviluppare competenze nei settori dove c’è domanda”. Solo che può non essere sufficiente: “le persone più capaci e meritevoli in Sud Sudan hanno poche chance di successo”. È molto più probabile in paesi ricchi e con sviluppate istituzioni legali e scolastiche e altre infrastrutture. Ma molti paesi di questo genere non sembrano fare un buon lavoro di perpetuazione di questi fattori: i più fortunati diventano meno, e più fortunati ancora. I meno fortunati aumentano, e le loro fortune peggiorano.

E una ragione di questa tendenza – oltre a molte altre, anche in questo caso – è la diminuzione del consenso pubblico verso l’istruzione. In molti stati americani e in altri paesi la spesa pubblica per la scuola è diminuita negli ultimi anni, e un’istruzione di qualità rimane in buona parte dipendente dalle condizioni economiche familiari, direttamente o indirettamente. A questo ha contribuito la tendenza umana a sottovalutare il ruolo della fortuna, che ha ridotto la disponibilità dei cittadini a sostenere gli investimenti necessari per rendere possibili i successi personali, dando per scontato che le qualità e l’impegno dei singoli siano un merito dato e un fattore sufficiente.

Rispetto a questo Frank, da economista, propone maggiori investimenti finanziati da tasse più alte per i redditi maggiori: “prove scientifiche dimostrano che oltre un certo reddito, il senso di benessere delle persone dipende più dalla sensazione del potere d’acquisto relativo che dalla spesa effettiva. Se per queste categorie le tasse fossero un po’ più alte, tutte le rispettive case sarebbero un po’ più piccole, tutte le auto un po’ meno care, tutti i diamanti un po’ più modesti e tutte le feste un po’ meno costose. La definizione di “speciale” si adeguerebbe, mantenendo la soddisfazione delle persone di maggior successo economico”.

Il dato incoraggiante è che un’altra ricerca, del 2010, ha mostrato che la consapevolezza del ruolo della fortuna nei propri successi rende le persone più disponibili a contribuire al bene comune. Quindi ogni occasione di coinvolgere gli altri in questa consapevolezza e in conversazioni sul ruolo della fortuna nelle loro storie fortunate – compreso l’articolo di Frank e questo – può aumentare la loro inclinazione a investire nelle possibilità di successo delle prossime generazioni.