Beyoncé e il femminismo

Tra le femministe ci sono pareri contrastanti: il fatto che si presenti come una classica "donna sexy" rende il suo impegno meno credibile?

di Caitlin Gibson – The Washington Post

Una pubblicità di Beyoncé su un pullman per turisti a Roma nel 2013 ( GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)
Una pubblicità di Beyoncé su un pullman per turisti a Roma nel 2013 ( GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

Mettere in mostra la propria bellezza e la propria sensualità fa di un’icona pop una femminista emancipata o ne fa uno strumento inconsapevole al servizio della visione patriarcale del mondo? L’icona in questione è Beyoncé, sul cui femminismo le femministe discutono da quando è diventata famosa: Beyoncé incoraggia il progresso, promuove sé stessa, o fa entrambe le cose? La stessa Beyoncé aveva inizialmente rifiutato l’etichetta di “femminista”, per poi rivendicarla in mezzo a fasci di luce bianca durante la sua esibizione agli MTV Video Music Awards del 2014.

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Dopo la recente uscita del suo “visual album” Lemonade – che è stato molto apprezzato e definito come una potente rappresentazione di cosa significa essere una donna nera, dell’infedeltà e della redenzione – le femministe bell hooks e Janet Mock hanno dato pareri contrastanti sulla rappresentazione delle donne che emerge dal video di un’ora che accompagna il disco di Beyoncé.

Hooks – un’importante studiosa che aveva definito Beyoncé una «terrorista» quando posò in intimo sulla copertina di Time – ha pubblicato di recente un saggio meno categorico in cui loda il disco: «La cosa che rende Lemonade così speciale è l’ampia portata del suo panorama visivo; costruire una sorellanza di donne nere con un forte valore simbolico, che si oppone all’invisibilità e rifiuta di rimanere in silenzio, non è un’impresa da poco, perché riesce a spostare l’attenzione della cultura bianca dominante. Ci sfida a guardare con occhi diversi e a rivedere radicalmente il modo in cui vediamo il corpo delle donne nere», ha scritto Hooks. La sua recensione, però, non è stata esattamente entusiasta. Hooks ha anche sottolineato come il progetto di Beyoncé presenti il corpo femminile in modo «completamente esteticizzato», e si è chiesta se il disco faccia davvero qualcosa per risolvere i problemi delle donne nere: «Mettere in mostra dei bei corpi di donne nere non contribuisce a creare una cultura equa di benessere, in cui le donne nere si possano realizzare ed essere davvero rispettate».

Con la sua risposta alla critica di Hooks, Janet Mock – scrittrice e sostenitrice dei diritti delle persone transgender – ha colto l’occasione per affrontare un tema fondamentale alla base del dibattito: la percezione all’interno del movimento delle femministe nere delle donne che, come Beyoncé, si presentano in modo tradizionalmente “femminile”. «Andiamo oltre il titolo acchiappa-click sulla questione “Hooks contro Beyoncé” e parliamo invece del rifiuto per le donne nere che si presentano in modo “femminile”», ha scritto Mock su Twitter e Facebook. Secondo Mock le espressioni che Hooks usa per descrivere le donne in Lemonade – i loro «capelli vistosi», lo stile da «figurini di moda» – «sanno di sentenza verso tutto ciò che è presentato in modo glamour e femminile». «Ricorda la visione secondo cui le donne che si presentano in modo femminile siano meno serie e quindi complici del sistema patriarcale, e che si limitino a usare i loro corpi invece del cervello per vendere, farsi notare, e sopravvivere. Dobbiamo fermare tutto questo. Tutte noi», ha aggiunto Mock. In altre parole: Beyoncé non dovrebbe essere criticata solo perché ha scelto di abbracciare la sua bellezza tradizionale. «I nostri corpi “vestiti di tutto punto” e le nostre “capigliature vistose” non ci tolgono serietà», ha scritto Mock, «il modo in cui ci presentiamo non è un’unità di misura della nostra credibilità. Queste classifiche di rispettabilità che generazioni di femministe hanno fatto proprie non ci salveranno dalla visione patriarcale del mondo».

Come ha sottineato Mock, lei e Hooks sono amiche, anche se non è la prima volta che discutono in pubblico. Nel 2014 avevano partecipato entrambe a un dibattito alla New School, un’università di New York, sulla rappresentazione delle donne di colore nei media, quello in cui Hooks definì Beyoncé una «terrorista». Hooks si riferiva alla discussa copertina di Beyoncé su Time del maggio 2014: sotto il titolo che la proclamava una delle 100 persone più influenti del mondo, Beyoncé posava in intimo bianco, con le labbra leggermente separate e uno sguardo sensuale, che Hooks non approvò. Secondo Mock, però, fu Beyoncé ad aver l’ultima parola sulla sulla rappresentazione pubblica e sulla foto scelta per la copertina, e la sua autorità dovrebbe essere rispettata: «Non voglio privare Beyoncé della sua capacità di decidere e scegliere quell’immagine, né di essere la manager di sé stessa». Hooks rispose dicendo che in questo modo Beyoncé era complice del suo sfruttamento: «Dal mio punto di vista decostruttivo, allora, stai dicendo che Beyoncé è complice nel costruire la sua immagine di schiava», disse Hooks, «io vedo una parte di Beyoncé che è anti-femminista, aggressiva e terrorista, soprattutto per l’impatto che ha sulle ragazzine».

Tra le molte altre femministe nere, all’epoca fu in forte disaccordo con questo argomento Brittney Cooper, professoressa della Rutgers University e co-fondatrice del blog Crunk Feminist Collective. «Tira in ballo la questione delle bambine per controllare il modo in cui Beyoncé presenta il suo corpo», ha detto Cooper di Hooks, come ha riportato Fusion. «Le donne nere dovrebbero avere la libertà di essere adulte e sexy senza che le si dica che la loro sensualità è dannosa, specialmente per le bambine». Mock è d’accordo: Beyoncé – come qualsiasi altra donna – dovrebbe essere presa sul serio indipendentemente dal modo in cui si presenta. La fobia della femminilità, ha detto Mock, «va eliminata dai nostri ambienti, dalle nostre teorie, e dal modo in cui ci giudichiamo le altre donne e il loro lavoro».

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