Cos’è e come funziona una società off shore, in poche parole

Come fanno le società aperte nei “paradisi fiscali” a ottenere vantaggi economici, legali e non

(ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)
(ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

Lunedì 4 aprile i giornali di tutto il mondo si sono occupati dei cosiddetti “Panama Papers”, i documenti riservati pubblicati dopo mesi di indagini giornalistiche da una serie di siti e quotidiani internazionali, e che descrivono il funzionamento di Mossack Fonseca, la quarta società più importante del mondo tra quelle che si occupano della creazione e della gestione di società off shore in paesi considerati “paradisi fiscali”. I “Panama Papers” stanno avendo così tante attenzioni perché coinvolgono – a livelli diversi – diverse personalità pubbliche internazionali, dal presidente russo Vladimir Putin ad alcuni importanti dirigenti della FIFA (e ci sono anche degli italiani).

Si definisce società off shore un’organizzazione che ha la propria sede legale in un paese diverso da quello nel quale sviluppa i suoi affari principali: questo paese estero è quasi sempre uno di quelli considerati “paradisi fiscali”, cioè quelli nei quali le restrizioni e le leggi sulle attività economiche sono molto morbide o flessibili, e nei quali le tasse sono basse o inesistenti. Un altro aspetto dei paradisi fiscali molto importante e attraente per le società con grossi capitali è che spesso offrono ampia riservatezza sulle attività finanziarie che hanno sede nella loro giurisdizione: questo significa che le amministrazioni locali in certi casi sono disposte a rifiutarsi di collaborare con le autorità di altri paesi per proteggere gli interessi delle società off shore. Alcuni esempi di paradisi fiscali sono Panama, le Isole Vergini Britanniche, la Svizzera, le Seychelles, le isole Cayman o Barbados: questi paesi offrono questi servizi per attrarre capitale estero nella propria economia (infatti non è detto che un residente in un paradiso fiscale abbia tutti i vantaggi fiscali di un non residente).

Aprire e gestire una società off shore non è necessariamente illegale: in molti casi e per molti paesi è lecito avere società in paradisi fiscali, a patto che tutto – compresa la quantità di soldi gestita – venga dichiarato alle autorità del proprio paese. I difensori dei paradisi fiscali sostengono che questi facilitino il flusso di capitale nel mondo, consentendo a chi ha grandi disponibilità economiche di evitare restrizioni e prelievi fiscali onerosi. Al di là delle questioni strettamente legali, è opinione diffusa che le società off shore di questo tipo siano eticamente discutibili e non rispettino principi basilari dell’economia, primo tra tutti quello della libera concorrenza. Spesso poi le società off shore sono costruite per evadere le tasse nel proprio paese, o anche per riciclare denaro frutto di profitti illegali. Un documento contenuto nei Panama Papers, una nota di uno dei soci di Mossack Fonseca, spiega che «il 95 per cento del nostro lavoro coincide con la vendita di sistemi per evadere le tasse».

Per sfruttare i vantaggi di una società off shore non è sempre necessario trasferire le ricchezze direttamente nel paradiso fiscale, basta che in quel posto abbia sede la struttura legale: poi i beni gestiti possono anche essere un patrimonio immobiliare a Londra, un dipinto prezioso, un jet privato, un conto bancario svizzero. Il proprietario effettivo del bene non lo possiede direttamente, ma attraverso la società off shore nel paradiso fiscale. Spesso, proprio per via della riservatezza delle amministrazioni fiscali, risalire al vero proprietario di una società off shore può essere molto difficile o impossibile. Le società off shore possono, a seconda delle proprie attività e dei propri patrimoni, continuare a pagare una certa quantità di tasse anche nel paese dove effettivamente operano. Attraverso scappatoie legali e complessi sistemi burocratici, però, possono registrare il grosso dei propri guadagni o delle proprie transazioni economiche come aventi luogo sotto la giurisdizione dei paradisi fiscali, e pagare – o non pagare, a seconda dei casi – qui le tasse. Nicholas Saxon, un giornalista del Guardian che si occupa di evasione fiscale internazionale, ha fatto un esempio concreto di come funziona una società off shore:

Mettiamo che una società prepari un container pieno di banane in Ecuador, che costa alla società 1.000 dollari. Le vende a un supermercato francese per 3.000 dollari. Quale paese preleva le tasse su quel guadagno di 2.000 dollari: la Francia, l’Ecuador? La risposta è: “dovunque lo decida la società”. La multinazionale mette su tre società, tutte di sua proprietà: EcuadorCo, HavenCo (in un paradiso fiscale) and FranceCo. EcuadorCo vende il container a HavenCo per 1.000 dollari, e HavenCo le vende a FranceCo per 3.000 dollari. Praticamente è tutto qui (le banane di per sé non passano neanche vicino al paradiso fiscale: tutto questo è solo una questione burocratica a New York o Londra). Potreste esservi persi cos’è successo: a EcuadorCo è costato 1.000 dollari preparare il container, e l’ha venduto per 1.000 dollari. Quindi EcuadorCo non registra guadagni, e perciò niente tasse. Allo stesso modo, FranceCo lo compra per 3.000 dollari e lo vende al supermercato per 3.000 dollari. Di nuovo, niente guadagni e niente tasse. HavenCo è la chiave del puzzle. Ha comprato il container per 1.000 dollari e lo ha venduto per 3.000, per un guadagno di 2.000 dollari. Ma ha sede in un paradiso fiscale, perciò non paga tasse.

Saxon spiega che nella realtà le cose sono più complicate di così – non si parla di banane, innanzitutto – e che gli stati cercano di impedire questo tipo di sistemi con controlli, restrizioni e leggi speciali: ma le società off shore funzionano grazie al lavoro di numerosi avvocati ed esperti di finanza che cercano costantemente modi per consentire questo tipo di trasferimenti.