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  • Martedì 15 marzo 2016

Cosa vuol dire il ritiro della Russia dalla Siria

Probabilmente che il regime di Assad non è più in pericolo, anche se c'è chi pensa che lo costringerà a lavorare davvero per il processo di pace

Il presidente russo Vladimir Putin con il ministro della Difesa Sergei Shoigu e quello degli Esteri Sergei Lavrov al Cremlino, lunedì 14 marzo. (MIKHAIL KLIMENTYEV/AFP/Getty Images)
Il presidente russo Vladimir Putin con il ministro della Difesa Sergei Shoigu e quello degli Esteri Sergei Lavrov al Cremlino, lunedì 14 marzo. (MIKHAIL KLIMENTYEV/AFP/Getty Images)

Lunedì 14 marzo il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che la Russia ritirerà dalla Siria la “parte principale” delle sue forze militari presenti nel paese. La decisione di Putin è stata inaspettata e ha colto di sorpresa la maggior parte degli osservatori: la Russia era intervenuta militarmente in Siria nel settembre del 2015 e da allora aveva giocato un ruolo decisivo nell’andamento della guerra civile siriana, nella quale combattono le forze del presidente Bashar al Assad (alleato della Russia) contro i vari gruppi di ribelli siriani. Nonostante si prevedesse che la Russia non avesse intenzione di rimanere in Siria nel lungo termine, non ci si aspettava decidesse di ritirare le truppe così presto. La versione che ha dato Putin è che la missione militare russa in Siria «nel suo complesso sia stata compiuta».

Ritirandosi, la Russia non lascerà il regime di Assad completamente sprovvisto di sostegno militare – anche l’Iran e Hezbollah hanno messo a disposizione di Assad aiuto militare – ma il parziale disimpegno militare significa comunque che Putin considera stabile e non preoccupante la posizione del regime di Assad, che invece era in grande difficoltà quando la Russia aveva inviato le prime truppe. Dopo una fase della guerra in cui i ribelli erano riusciti a conquistare diversi territori al regime, grazie ai bombardamenti russi – compiuti soprattutto contro i ribelli, nel nord-ovest del paese – Assad è riuscito in parte a riconquistarli, e a ristabilire una situazione di sicurezza nella fascia costiera della Siria dove tra le altre cose si concentra la popolazione siriana alauita, la stessa setta dello sciismo di cui fa parte Assad (la maggioranza della popolazione siriana è invece sunnita). Alcuni analisti hanno avvertito che è possibile che il ritiro annunciato non venga effettivamente rispettato dalla Russia, che ogni caso ha detto che manterrà attiva una base aerea nella provincia costiera siriana di Laodicea, e un’altra navale vicino a Tartus.

Secondo alcuni osservatori, tuttavia, un altro elemento potrebbe avere giocato un ruolo nella decisione di Putin: ritirando il proprio sostegno militare, la Russia metterà Assad in una posizione più complicata ai colloqui di pace sulla Siria organizzati dall’ONU, che sono ricominciati lunedì a Ginevra e sui quali c’è un cauto ottimismo. Andrew J. Tabler, uno studioso della Siria al Washington Institute for Near East Policy ha detto che il ritiro delle truppe russe «rimette l’onere dell’impegno militare su Assad, per ammorbidire la sua posizione nei negoziati». Salim al-Muslat, portavoce di un comitato rappresentativo dei ribelli che sta partecipando ai colloqui di pace, ha detto che se effettivamente il ritiro sarà completato questo metterà più pressioni sul regime di Assad, che fino ad ora era stato mantenuto in vita dal sostegno russo. È d’accordo anche l’analista Michael Horowitz, secondo il quale Assad è ora in qualche modo obbligato a impegnarsi davvero nei colloqui.

Diversi analisti sostengono che la missione della Russia in Siria sia davvero compiuta: l’intervento ha ridato alla Russia un peso politico fondamentale, ha teoricamente impedito che il regime di Assad possa essere rovesciato dall’intervento di una potenza straniera, ha rafforzato Assad, e ha fatto guadagnare alla Russia un ruolo importante nella regione (dove l’influenza dell’Iran, prima dell’intervento russo, stava aumentando). Il cessate il fuoco deciso lo scorso 22 febbraio, per quanto molto fragile, ha provocato una drastica diminuzione delle violenze e garantito aiuti umanitari in zone dove non potevano arrivare: la situazione attuale in Siria è una buona base per le negoziazioni dal punto di vista della Russia, che secondo Max Fisher di Vox avrebbe poco da guadagnare continuando a combattere: e in pratica, almeno in teoria, il momento migliore per la Russia per ritirarsi. Alcuni osservatori sostengono che la Russia non sia mai riuscita davvero a controllare e influenzare il regime di Assad, che in diverse occasioni ha provocato escalation di violenza anche quando non era lungimirante dal punto di vista strategico: per questo vorrebbe costringere Assad a impegnarsi nei negoziati per assicurarsi che l’attuale status quo raggiunto in Siria si mantenga nel tempo. «Se non credete che Putin forzerebbe così un proprio alleato, considerate che a quanto risulta Assad è stato informato della decisione di Putin solo lunedì», scrive Fisher.

Gli analisti di Eurasia Group, un’importante agenzia di consulenza politica, dicono che il ritiro delle truppe russe potrebbe essere una conseguenza di una mancata intesa tra Russia e Siria: un modo della Russia per usare le maniere forti e convincere Assad a scendere a qualche compromesso per quanto riguarda la transizione al potere e la democratizzazione della Siria richiesta dalla comunità internazionale. Nelle ultime settimane il governo siriano aveva fatto almeno tre dichiarazioni contrastanti con la posizione ufficiale della Russia sulla possibilità di una riforma costituzionale nel paese e sulle future elezioni: sabato scorso, per esempio, il ministro degli Esteri siriano aveva detto che non ci sarebbero state discussioni riguardo a delle future elezioni presidenziali. Gli osservatori hanno scritto che ci sono dei segnali che fanno pensare che la Russia abbia una certa fiducia nella possibilità che il regime di Assad faccia qualche concessione ai colloqui di Ginevra.

Un’altra ragione per la decisione di Putin potrebbe essere stata di natura economica: la Russia sta attraversando un momento di difficoltà economiche per via della diminuzione del prezzo del petrolio, e Putin potrebbe aver sfruttato un momento opportuno per “dichiarare vittoria” e sganciarsi dal conflitto in Siria limitando i costi della guerra. All’occorrenza, la Russia potrebbe ricominciare i bombardamenti – cambi di strategia repentini e opposti non sono rari nella politica estera russa – e nel frattempo continuare a sostenere economicamente Assad. Pavel Felgenhauer, un analista militare esperto di Russia, ha detto ad Al Jazeera che quello della Russia è un modo di cercare un compromesso con l’Occidente, contro il quale, secondo Felgenhauer, non è davvero pronta a competere.

I ribelli siriani sono stati tra i gruppi colti più di sorpresa dalla decisione della Russia, e c’è confusione sul fatto se per loro sia una cosa positiva o negativa. Nella provincia di Idlib i combattenti di diversi gruppi ribelli hanno festeggiato sparando in aria e distribuendo dolci per le strade. Altri sono più preoccupati: il New York Times ha intervistato un attivista antigovernativo di Homs che si è detto meno ottimista: «I russi sponsorizzavano il cessate il fuoco, ora il regime bombarderà di nuovo e i russi ci lasceranno agli iraniani, un disastro». Secondo la Russia, i bombardamenti delle proprie forze militari hanno ucciso 2000 combattenti dei gruppi ribelli e 17 comandanti; sono anche stati attaccati 200 pozzi petroliferi, 400 insediamenti ribelli sono stati conquistati ed è stata interrotta la via di comunicazione principale dei ribelli con la Turchia. È però opinione diffusa che gli attacchi russi non abbiano colpito solo l’ISIS e gli altri gruppi terroristi coinvolti nella guerra in Siria, ma anche i ribelli più moderati. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, in tutto sono morte per i bombardamenti russi 4408 persone, tra le quali 1733 civili.