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  • Domenica 21 febbraio 2016

Dove ha sbagliato Jeb Bush

Si è rivelato un tecnocrate in un contesto molto rumoroso e non è riuscito a rispondere alle prese in giro di Trump, dice il Washington Post a poche ore dal ritiro della sua candidatura

di Ed O’Keefe – Washington Post

Jeb Bush a Greenville, South Carolina (Sean Rayford/Getty Images)
Jeb Bush a Greenville, South Carolina (Sean Rayford/Getty Images)

Jeb Bush, che ha cercato di arrivare alla Casa Bianca come già suo padre e suo fratello avevano fatto, ha sospeso la sua campagna elettorale. Nella politica americana “sospeso la campagna elettorale” è l’espressione che si usa quando ci si ritira, anche se i comitati elettorali rimangono formalmente in piedi per pagare stipendi allo staff e saldare eventuali debiti. A Jeb Bush è accaduto sabato sera dopo un anno di costante declino nei sondaggi, culminato in una sonora sconfitta nelle primarie del South Carolina.

Presentandosi nell’auditorium di un hotel pieno di membri del suo staff, finanziatori e amici di lungo corso, Bush ha detto: «sono fiero della campagna che abbiamo condotto per rendere più unito il nostro paese, e proporre soluzioni da conservatori ai problemi. Ma la gente di Iowa, New Hampshire e South Carolina ha parlato. Stasera sospendo la mia campagna elettorale». «No!» hanno urlato alcuni. «Già», ha risposto lui, prima che un applauso riempisse la sala: «mi congratulo con i miei avversari che sono rimasti sull’isola» (la citazione dell’isola è una battuta e si riferisce ai reality show in cui i candidati devono lasciare l’isola quando vengono eliminati). Durante il discorso, i membri del suo staff osservavano basiti: solo alcuni di loro erano già a conoscenza del contenuto del discorso.

L’abbandono di Bush, che era il candidato più in vista fra quelli moderati e vicini all’establishment del partito, libera potenzialmente decine di milioni di dollari di finanziamenti che potrebbero finire nelle tasche di altri candidati (su tutti Marco Rubio, il candidato più moderato fra i tre rimasti in gara). La decisione di Bush è arrivata alla fine di una campagna elettorale iniziata con grande fiducia e preparazione. Già da anni Bush era considerato il potenziale candidato espressione dell’élite dei Repubblicani, dati i suoi legami familiari e il legame con molti dei finanziatori e capi del partito. Dopo quasi un anno di discussioni private col proprio staff, Bush fece intuire per la prima volta di stare valutando una candidatura durante il Ringraziamento del 2014. Iniziò subito ad attrezzare una squadra che alla fine ha incluso molte delle persone che gli erano già vicine durante i due mandati da governatore della Florida, oltre ad altri navigati consiglieri politici.

La squadra Bush, sin dall’inizio della campagna, ha applicato una tattica del “colpisci e terrorizza”, volta soprattutto a scoraggiare altri potenziali candidati forti: Bush ha accumulato una quantità mai vista di soldi sia per il suo comitato elettorale sia per il suo super PAC, un’associazione indipendente che può ricevere e dare contributi a candidati politici senza grandissime restrizioni. Nel corso del 2015 il super PAC di Bush, Right to Rise, ha raccolto in tutto 118 milioni di dollari. Ne ha spesi almeno 95,7, perlopiù in pubblicità che parlavano male dei suoi avversari.

Questa strategia ha costretto ad esempio l’ex candidato Repubblicano alla presidenza Mitt Romney ad anticipare la decisione se ricandidarsi o meno (Romney ha poi deciso di non candidarsi). Ma non è riuscita a scoraggiare altri potenziali rivali come Marco Rubio – senatore della Florida un tempo molto legato a Bush – che si è rivelato molto più bravo del suo ex mentore in campagna elettorale.

Nonostante il suo vantaggio dal punto di vista economico e dei sondaggi (Bush è stato primo nei sondaggi per buona parte della prima metà del 2015), Bush si è rivelato un tecnocrate in un contesto molto rumoroso. Era ossessionato dai dettagli del suo preciso programma politico, ma rifiutava la componente “scenica” della campagna elettorale. Gli piaceva dare risposte lunghe a domande semplici che gli venivano poste nei meeting ristretti con gli elettori, ma non riusciva a condensarle in risposte brevi durante i dibattiti televisivi con gli altri candidati, guardati da milioni di persone.

Bush ha cominciato a perdere terreno nei sondaggi la scorsa primavera. Ha peggiorato le cose ficcandosi dentro un pasticcio che riguardava la guerra in Iraq e suo fratello, l’ex presidente George W. Bush – in sostanza ha difeso la decisione di suo fratello di iniziare la guerra – mostrandosi riluttante e anzi incapace di rispondere a una domanda più ampia nella mente di molti elettori: perché dovremmo eleggere un altro Bush? Nell’estate del 2015 Al Cardenas, un vecchio amico di Bush, ha detto che il vantaggio di Bush si era ridotto perché i media si stavano concentrando eccessivamente sulla sua famiglia piuttosto che sui suoi meriti da governatore della Florida. Una volta che la gente inizierà a conoscere l’ex governatore della Florida, predisse Cardenas, «allora si concentreranno più su Jeb, e meno su Bush».

Alla fine, invece, Jeb Bush ha deciso di utilizzare anche i suoi contatti familiari. Nell’ultima settimana di campagna elettorale l’ex presidente George W. si è unito a suo fratello minore in un comizio fuori Charleston, in South Carolina, e sua madre ha fatto lo stesso per un giro finale lungo tutto lo stato.

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Bush ha avuto soprattutto difficoltà a gestire Donald Trump, che ha preso in giro personalmente Bush via Twitter, in diversi comizi e interviste televisive. Una delle critiche più efficaci di Trump nei confronti di Bush – che prima di iniziare la sua campagna elettorale aveva anche perso quasi 20 chili – è stata l’accusa di essere “low-energy”, cioè moscio, e di non avere energie sufficienti per contrastare Hllary Clinton. Le accuse di essere eccessivamente goffo e un po’ distante dagli elettori lo hanno accompagnato in tutta la campagna elettorale.

All’inizio Bush ha scelto di ignorare Trump, cosa che lo ha fatto sembrare poco consapevole delle moderne dinamiche elettorali dei Repubblicani. Diverse volte Jeb Bush si è trovato a lamentarsi della natura ostile, ad alto ritmo e dominata dai media della politica americana. Dopo aver faticato molto nei primi dibattiti televisivi, Bush ha ammesso di dover utilizzare una nuova strategia, questa volta in controtendenza con il suo carattere “nobile” (in precedenza, Bush aveva detto che «non è possibile fare il presidente insultando gli altri, o essere come uno di quei politici ossessionati dai sondaggi che scappano quando la situazione diventa seria»). Alla fine Bush ha perso comunque.

Mentre lasciava l’auditorium dove ha tenuto il suo ultimo discorso, Bush aveva gli occhi umidi. Nel consueto giro di strette di mano di fine comizio, Bush si è scusato con i membri del suo staff e con i suoi sostenitori, ma ha anche detto a un amico che adesso potranno finalmente farsi una birra insieme. Sally Bradshaw, un importante membro del suo staff, ha spiegato che «questo è un ciclo più grande di tutti noi» mentre andava ad abbracciare il suo staff personale e il capo delle finanze di Bush, Woody Johnson.

Un giornalista ha poi chiesto a Bush quando ha capito che era tutto finito: «questo pomeriggio, questa sera», ha risposto prima di voltarsi e andare via.

©Washington Post 2016