• Moda
  • Lunedì 4 gennaio 2016

La moda troppo veloce

Gli stilisti non riescono a reggere i ritmi di produzione, che li costringono a disegnare anche una collezione al mese: è colpa di Instagram e dei marchi low cost

di Enrico Matzeu – @enricomatzeu

Alber Elbaz alla finale della sfilata di Lanvin, a Parigi, il 5 marzo 2015
(FRANCOIS GUILLOT/AFP/Getty Images)
Alber Elbaz alla finale della sfilata di Lanvin, a Parigi, il 5 marzo 2015 (FRANCOIS GUILLOT/AFP/Getty Images)

Negli ultimi mesi del 2015 molti giornali hanno scritto che il mondo della moda è in difficoltà, dopo i numerosi licenziamenti di stilisti da alcune importanti maison. Secondo molti parte della crisi è legata ai ritmi troppo veloci dell’industria, necessari per soddisfare in modo sempre più rapido le richieste dei clienti.

Critici ed esperti hanno iniziato a parlarne lo scorso luglio, quando Alexander Wang non è stato riconfermato come direttore creativo di Balenciaga dopo solo tre anni di lavoro; e poi di nuovo a ottobre, dopo che Raf Simons si è dimesso dalla direzione artistica di Christian Dior e Alber Elbaz è stato licenziato da Lanvin, dove lavorava da dodici anni. In maniera e forme diverse, tutti questi stilisti hanno ammesso che non riuscivano più a seguire i ritmi troppo veloci con cui dovevano produrre dalle quattro alle sei collezioni l’anno.

In un recente articolo sull’Independent, il critico di moda Alexander Fury ha scritto che il sistema è in crisi almeno dal 2010, quando lo stilista Alexander McQueen si suicidò e John Galliano venne licenziato da Christian Dior (dopo che era stato arrestato ubriaco a Parigi per comportamento violenti e insulti antisemiti). Secondo Fury gli stilisti subiscono sempre più pressioni e non vengono considerati come persone ma come macchine che devono sfornare idee sempre nuove e farlo sempre più velocemente. La responsabilità, sostiene, dipende in parte anche dalla fast fashion, le catene di abbigliamento a basso costo che propongono collezioni nuove a ritmi molto accelerati. Secondo Fury la moda oggi è danneggiata proprio da quelli che prima erano i suoi punti di forza: velocità e cambiamento. I ritmi troppo veloci vanno a discapito degli stilisti, che non hanno tempo di creare e pensare a idee nuove perché spesso devono disegnare una collezione al mese. Per questo alcuni stilisti, come Jean Paul Gaultier e Victor & Rolf, hanno rinunciato alle linee di prêt à porter e disegnano solo per l’haute couture, l’alta moda.

I marchi low cost, come Zara – e quelli del gruppo Inditex che la possiede: Bershka, Pull & Bear, Stradivarius, Massimo Dutti, Uterqüe e Oysho – Mango e H&M (che comprende anche Cos e & Other Stories) propongono capi d’abbigliamento economici che seguono le tendenze del momento. Alcuni pezzi sono spesso molto simili – se non uguali – a quelli disegnati dagli stilisti (motivo per cui in passato ci sono state anche molte polemiche), perché le collezioni delle case di moda sfilano con sei mesi d’anticipo rispetto alla stagione che propongono e le catene low cost hanno tutto il tempo di copiare e anche proporre in anticipo capi che andranno di moda quella stagione. Queste catene propongono nuovi capi ogni settimana, e hanno contribuito ad aumentare il desiderio costante di novità dei clienti. Anche il prêt à porter si è dovuto adeguare ai ritmi imposti dalla fast fashion per poter essere più competitivo. Sono state introdotte e intensificate le collezioni cruise, quelle presentate prima delle sfilate tradizionali e vendute nei negozi prima delle altre. Alcuni marchi come Burberry, Moschino e Versus hanno messo in vendita online e in tempo reale i capi e gli accessori presentati in passerella.

La rivista di moda Dazed spiega in un articolo che, oltre ai marchi di fast fashion, ad accelerare i ritmi della moda sono stati anche i social network e in particolare Instagram, che contribuisce a far parlare di moda in continuazione. I blogger e i cosiddetti influencer, persone note o attive sui social network o blogger che pubblicano moltissime foto legate alla moda e spesso lo fanno in tempo reale durante le sfilate, innescando il desiderio di possedere un capo o un accessorio e di possederlo subito.

La soluzione che propone Fury è smettere di produrre un numero sempre maggiore di abiti per un mercato già saturo, o almeno di non farlo così velocemente. È necessario, scrive, prendere in considerazione un nuovo concetto di marketing, la “stanchezza del consumatore”, che può essere esteso anche a stilisti e giornalisti, che come fa notare Dazed, devono coprire un numero sempre crescente di sfilate durante le settimane della moda, che diventano sempre più lunghe e spesso rischiano di accavallarsi tra di loro.