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  • Venerdì 1 gennaio 2016

Perché il rugby italiano non migliora mai

La nazionale non è il vero problema: la federazione ha creato un sistema che privilegia pochi e trascura gli altri, cioè quasi tutti

di Pietro Cabrio – @piercab

Un calcio durante la partita tra Benetton e Stade Français (PIERRE TEYSSOT/AFP/Getty Images)
Un calcio durante la partita tra Benetton e Stade Français (PIERRE TEYSSOT/AFP/Getty Images)

La nazionale italiana di rugby partecipa al torneo delle Sei Nazioni dal 2000: delle ottanta partite giocate fin qui ne ha vinte solo dodici e ne ha perse sessantasette. Dopo alcuni buoni risultati nel 2007 e nel 2013, la nazionale è sembrata fare addirittura alcuni passi indietro nelle ultime edizioni, a seguito delle quali molti appassionati hanno iniziato a domandarsi quanto tempo ci vorrà prima che l’Italia diventi una nazionale veramente competitiva.

Quattro delle sei nazionali che partecipano al torneo hanno dovuto aspettare anche più di 16 anni tra una vittoria e l’altra: la Francia ha giocato per 43 anni prima di vincere un Sei Nazioni (anche se dal 1910 al 1953 la situazione in Europa non permise uno svolgimento regolare del torneo), l’Irlanda non ha vinto il torneo per 24 anni, la Scozia per 26 e l’Inghilterra per 18 anni e 16 edizioni. Considerando che la tradizione rugbistica italiana è molto più giovane e debole rispetto a questi paesi, è normale che la nazionale italiana faccia fatica: nel rugby vince sempre chi è più forte, o chi gioca meglio, e raramente ci sono sorprese. Quello che non è normale, però, è lo scarso sviluppo del movimento rugbistico in tutto il paese, nonostante ci siano state molte occasioni per investire e riformare o riorganizzare la struttura dello sport.

La popolarità del rugby in Italia, dal 2000 a oggi, è sicuramente aumentata; è aumentato anche il numero di praticanti e iscritti ai club. La federazione italiana (FIR) ha un bilancio annuale tra i 40 e i 50 milioni di euro, ed altri contributi vengono versati ogni anno dagli organi internazionali per favorire lo sviluppo dello sport. La nazionale gioca le partite del Sei Nazioni all’Olimpico di Roma: sono solamente tre partite all’anno ma vengono seguite da una media di quasi 50 mila spettatori paganti. Anche per le amichevoli gli stadi vengono riempiti abbastanza facilmente. Insomma, negli ultimi dieci anni il rugby italiano è diventato più ricco e popolare. Secondo alcuni esperti quello che finora è mancato è stato lo sviluppo delle retrovie, cioè dei club e dei settori giovanili, che paragonati a quelli delle cinque federazioni europee più importanti sono ancora più indietro di quanto lo sia la nazionale nel Sei Nazioni.

La scarsa diffusione
Quasi tutte le squadre del campionato d’Eccellenza (la prima divisione del campionato italiano) sono nel Veneto orientale, in provincia di Roma, in una zona circoscritta della Lombardia e in parte dell’Emilia: le quattro aree italiane in cui il rugby ha un lunga e diffusa tradizione. Grossi centri come Milano, Bologna, Torino e Firenze non sono adeguatamente rappresentati, e non lo sono nemmeno tutte le grandi città del sud. Nella provincia di Treviso, che ha circa 900 mila abitanti, hanno sede due fra le più forti squadre d’Italia, la Benetton e il Mogliano. A poche decine di chilometri dai confini della provincia di Treviso si trovano altre due squadre d’Eccellenza: il San Donà di Piave e il Petrarca Padova. Si può dire quindi che in Italia la diffusione del rugby sia omogenea solo in Veneto, e che il rugby in generale sia praticato poco più che come uno sport locale. Nel resto del paese ci si limita ad una diffusione a zone o città di piccole-medie dimensioni: quei luoghi in cui il rugby si è radicato per motivi particolari alcuni decenni fa.

Vista la situazione di partenza, è difficile che l’attuale sistema di club cittadini porti a un miglioramento della qualità o della diffusione del rugby in Italia. Una soluzione plausibile per rimediare a questa disomogeneità – già usata per simili motivi in altri campionati europei — potrebbe essere andare oltre i club esistenti e formare franchigie provinciali (formate da una o più province o zone) e un campionato di prima divisione senza retrocessioni. In questo modo le grandi città – che da sole faticano molto a formare una squadra competitiva – avrebbero la possibilità di unire le proprie potenzialità a realtà più piccole ma con una certa tradizione: una squadra di Firenze, per esempio, potrebbe beneficiare della lunga tradizione del rugby nella vicina città di Prato. Nel caso opposto, la squadra della provincia di Treviso potrebbe essere più forte dell’attuale rosa della Benetton, con l’aiuto di Mogliano e di molte altre città di piccole dimensioni ma con una buona tradizione.

Un esperimento di questo genere è già stato fatto alcuni anni fa ed è tuttora in corso. Le Zebre Rugby hanno sede a Parma e sono indicate genericamente come la squadra del nord-ovest italiano. Una prima franchigia venne fondata nel 2010 a Viadana con il nome Aironi; solo nel 2012, dopo il fallimento del progetto per motivi economici, vennero istituite le Zebre direttamente dalla FIR, con una diversa denominazione e con sede a Parma: attualmente sono la seconda squadra più forte d’Italia e insieme alla Benetton partecipano alle Guinness Pro 12, il “super-campionato” creato nel 2001 dalle federazioni di Irlanda, Galles e Scozia per avere la possibilità di giocare in un torneo più competitivo e vicino al livello del campionato inglese.

In un sistema misto formato da squadre provinciali e cittadine, in prima divisione e Pro 12 giocherebbero le franchigie provinciali mentre le divisioni inferiori verrebbero lasciate ai club, che non verrebbero eliminati ma solo ridimensionati. In questo modo continuerebbero a fare ciò che hanno sempre fatto e che ha permesso all’Italia di essere il sesto paese europeo in cui si gioca a rugby: creare delle solide comunità rugbistiche, più orientate a insegnare lo sport ai bambini e ai ragazzi che ad ottenere risultati e profitti (che nel rugby è molto difficile creare, almeno per i club). Al momento però sembra una soluzione molto difficile, considerando le difficoltà che hanno avuto progetti simili nel passato.

Nei principali campionati europei, la formula dei club cittadini esiste solo in Inghilterra e Francia, dove il rugby è uno degli sport principali, è molto seguito e riempie regolarmente stadi da una decina di migliaia di posti. In Irlanda, Galles e Scozia le squadre che competono nei maggiori livelli dei campionati sono tutte provinciali o formate da contee e aree più grandi. In Italia non ci sarebbe nemmeno il problema delle rivalità e dai campanilismi, dato che non ne esistono di vere e proprie e la media spettatori dell’Eccellenza non supera le mille persone a partita.

Allenatori e istruttori
La maggior parte delle squadre giovanili dei club italiani sono allenate più da figure paterne che da istruttori esperti. Non esiste quindi uniformità negli allenamenti e spesso gli istruttori delle giovanili sono i genitori dei ragazzi – che si prestano per qualche ora a settimana – o delle figure interne al club, la cui buona volontà non garantisce un adeguato livello di preparazione. È così perché i club hanno bilanci ristretti e assumono professionisti solo per la prime squadre e per le categorie più “anziane”.

Gli stessi ragazzi che nelle giovanili non ricevono una preparazione adeguata, arrivano poi in Eccellenza o in nazionale con evidenti carenze tecniche e tattiche, che si possono notare dai risultati. Il primo passo fondamentale per lo sviluppo del rugby italiano dovrebbe essere assumere degli allenatori preparati, soprattutto stranieri (o investire in corsi di aggiornamento avanzati per gli italiani), in grado di introdurre i più giovani ai veri sistemi di gioco, che verrano poi intensificati anno dopo anno. Non è un caso se Sergio Parisse e Martin Castrogiovanni, i due giocatori italiani più forti degli ultimi dieci anni, non siano cresciuti in Italia ed abbiano imparato i fondamentali del rugby in Argentina.

Il problema delle accademie federali
C’è poi il discorso dei centri di formazioni under 16 e delle accademie federali, le strutture create e finanziate dalla FIR in cui vanno a giocare e allenarsi i giocatori under 18 più forti selezionati da tutte le squadre d’Italia, e a cui viene fornito un livello di preparazione nettamente superiore alla media nazionale.

Il progetto della accademie è stato molto contestato fin dalla sua creazione: i più critici ritengono che vadano a danneggiare direttamente i club ed abbiano costi troppi alti per il bilancio della FIR. Attualmente le accademie sono dieci e si trovano a Torino, Milano, Mogliano, Prato, Rovigo, Remedello (Brescia), Roma, Benevento e Catania (più quella di Parma, che però comprende anche gli under 20, e i 24 centri di formazione). La maggior parte di queste strutture sono state istituite al nord, dove il rugby è più diffuso, mentre buona parte del sud, dove in diverse regioni il rugby è ancora praticamente sconosciuto, è stato trascurato. Inoltre l’istituzione delle accademie in qualche modo ha privilegiato solo un certo numero di giocatori (alcuni dei quali giocano oggi in nazionale), mentre a tutti quelli non selezionati non vengono date le stesse possibilità di crescita.

Nessuna squadra italiana è oggi in grado di competere seriamente in qualsiasi competizione europea. Nelle ultime edizioni entrambe le squadre italiane hanno concluso il campionato di Pro 12 nelle ultime due posizioni. Capita spesso, inoltre, che squadre italiane perdano anche contro club romeni, spagnoli e tedeschi, nonostante queste nazioni siano ben lontane dalla posizione del ranking mondiale occupata dall’Italia.