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  • Martedì 24 marzo 2015

Il rugby italiano è un fallimento?

Repubblica si chiede se gli ingenti finanziamenti ricevuti dalla federazione italiana negli ultimi anni siano stati spesi male, dati i costanti mediocri risultati al Sei Nazioni

ROME, ITALY - MARCH 21: Joshua Furno of Italy is tackled by Justin Tipuric of Wales during the RBS Six Nations match between Italy and Wales at Stadio Olimpico on March 21, 2015 in Rome, Italy. (Photo by Paolo Bruno/Getty Images)
ROME, ITALY - MARCH 21: Joshua Furno of Italy is tackled by Justin Tipuric of Wales during the RBS Six Nations match between Italy and Wales at Stadio Olimpico on March 21, 2015 in Rome, Italy. (Photo by Paolo Bruno/Getty Images)

Massimo Calandri ha fatto un po’ di conti su Repubblica riguardo gli ingenti finanziamenti ricevuti negli ultimi anni della federazione italiana di rugby, che finora non hanno prodotto risultati sportivi visibili. Da quando nel 2000 è stata ammessa al Sei Nazioni, uno dei tornei più importanti al mondo, la nazionale italiana di rugby ha vinto in tutto 16 partite su 80, praticamente una sola a torneo. Calandri parla di 500 milioni di euro spesi dalla federazione negli ultimi 16 anni, cioè a partire dalla prima partecipazione dell’Italia al torneo. Calandri riporta anche l’opinione di Mario Innocenti, ex difensore della nazionale, secondo cui negli ultimi anni «ci siamo concentrati sulla locomotiva, la Nazionale. Lasciando indietro i vagoni: il movimento, la base». Intanto anche le entrate ottenute dal torneo del 2015 – appena concluso con un mediocre penultimo posto – sono diminuite di 1,3 milioni di euro dall’edizione del 2014, quando furono di 41,9 milioni.

Dodici successi, un pari, 63 sconfitte. In 16 anni di Sei Nazioni la media è di una vittoria e qualcosa ogni 10 partite. Però nel conto ci sono anche 500 milioni di euro che nel frattempo la Federazione italiana di rugby ha dilapidato. E oggi è il giorno dell’ennesima umiliazione: la squadra azzurra scivola ufficialmente al quindicesimo posto del ranking mondiale, superata dai dilettanti della Georgia. Poco dietro, la modesta ma affamata Romania: scontro diretto ai mondiali di settembre, che paura. La festa è finita: anche il fedele popolo ovale – quello che canta l’inno di Mameli e beve birra coi tifosi avversari, sempre più felici – non ne può più di tante brutte figure. Va bene la retorica dei guerrieri, il colore del tifo: però in una settimana 100 punti sul groppone fanno perdere la pazienza anche a quelli che detestano il calcio e magari s’erano illusi dopo l’impresa di Edimburgo. Gli sponsor, prima entusiasti, ora dubitano.

«Ci vuole pazienza, dateci un po’ di tempo», supplica Alfredo Gavazzi, presidente Fir. Ma il bilancio preventivo 2015, appena approvato, parla chiaro: 5 milioni in meno. Rispetto a 2 anni fa, quando all’Olimpico vennero ospitati gli stessi 3 incontri del torneo, tra pubblicità, diritti tv e biglietti le entrate sono diminuite di 1.300.000. Nella cifra finale, 40 milioni e 600.000, ci sono poi 1.646.624 euro di proventi dalla Coppa del Mondo junior da giugno a Calvisano e dintorni – che devono obbligatoriamente essere investiti nella manifestazione stessa. Insomma, i denari sono sempre di meno.

«Non c’è peggior malato di chi si ostina a credere d’essere in perfetta forma, nonostante i sintomi siano evidenti». Marzio Innocenti è un medico. Ed è stato una storica terza linea azzurra, capitano di quell’Italia che ai primi mondiali – Nuova Zelanda, 1987 – fece la migliore figura di sempre, sfiorando i quarti di finale. Altri tempi. Migliori, forse. «Diciamo che da quando siamo entrati nel Sei Nazioni non sono stati fatti molti progressi. Nonostante i grandi contributi dalla federazione internazionale e lo straordinario successo di pubblico. Ci siamo concentrati sulla locomotiva, la Nazionale. Lasciando indietro i vagoni: il movimento, la base». Cinquecento milioni dopo, le prospettive sembrano anche peggiori. O forse, più semplicemente, il rugby non è uno sport per gli italiani. «Non è vero. I buoni rugbisti possono nascere dovunque. Però bisogna creare le condizioni giuste. Formare i giovani, e prima di loro gli allenatori. I dirigenti, gli arbitri».

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