Come l’immigrazione cambia la lingua

La recente ondata farà nascere nuovi slang, diversi dalla lingua standard, che si affermeranno sempre di più: ma è un bene

(Robert Benson/Getty Images for Knowledge Universe)
(Robert Benson/Getty Images for Knowledge Universe)

John McWhorter, professore di linguistica alla Columbia University specializzato nelle trasformazioni delle lingue e nelle differenze tra le lingue parlate da diverse popolazioni, ha spiegato sull’Atlantic come i recenti fenomeni di migrazione delle persone stiano influenzando le regole grammaticali delle lingue parlate nei paesi di destinazione dei migranti, soprattutto in quelli europei. La premessa che fa McWhorter è che la storia della lingua «è una storia di estinzione»: nel corso dei decenni molte lingue sono scomparse e alcune previsioni dicono che tra cento anni ne saranno sopravvissute solo poche centinaia. Contemporaneamente però, spiega McWhorter, stanno nascendo nuovi dialetti, soprattutto nelle aree urbane: questa tendenza è dovuta all’aumento degli immigrati di seconda generazione e in un certo senso va in controtendenza rispetto allo scomparire delle lingue. La conseguenza è si stanno sviluppando nuovi modi di parlare.

In diversi paesi europei si parlano lingue con strutture grammaticali relativamente complesse, piene di regole ed eccezioni che a volte sono difficili da rispettare anche da chi le parla come prima lingua: l’italiano e il tedesco, per esempio. Ovviamente imparare queste lingue è molto più facile per i figli delle persone straniere che si sono trasferite in Italia e in Germania, e in generale imparare fluentemente una lingua straniera è molto più facile prima dell’adolescenza: se spesso chi si trasferisce in un paese straniero da adulto non arriva a padroneggiare perfettamente la lingua, è molto probabile che i suoi figli ci riescano. Secondo McWhorter, però, la lingua che parleranno i figli degli immigrati non è quella “standard” ma presenta diverse variazioni. McWhorter prende come esempio la frase tedesca per dire “domani vado al cinema”, morgen gehe ich ins Kino: in questa formulazione il verbo (gehe) viene posto prima del soggetto (ich): i figli di immigrati tuttavia, spiega McWhorter, diranno probabilmente morgen ich geh Kino, mettendo il soggetto prima del verbo e omettendo la preposizione “al”. Questa nuova forma di tedesco parlata soprattutto nelle aree urbane dai figli degli immigrati viene chiamata Kiezdeutsch, e secondo McWhorter è del tutto simile indipendentemente dalla provenienza dei genitori.

Il fenomeno è simile a quello che ha portato allo svilupparsi del cosiddetto “Black English”, l’inglese parlato dagli afroamericani negli Stati Uniti: una lingua, spiega McWhorter, serve anche a comunicare l’identità di chi la parla, e il Black English è l’eredità dell’inglese incompleto che imparavano gli schiavi africani deportati in America. McWhorter fa l’esempio della frase “perché lei dice che lui è l’unico?”, why does she say he is the only one?: la formulazione Black English è why she say he the only one?, che omette quindi “does” e “is”, le forme verbali irregolari solitamente trascurate da chi sta imparando una lingua. Ma se siete abituati a guardare serie tv e film americani in lingua originale sapete bene che forme di slang di questo tipo vengono parlate da tutti i giovani, e non solo dai neri.

Questa tendenza è meno marcata in paesi di immigrazione più recente, per esempio l’Italia, dove tutto sommato le forme di slang trasformate dai parlanti di paesi stranieri sono meno evidenti, appunto, di quelle riscontrabili in Germania e negli Stati Uniti. In ogni caso McWhorter sostiene che come il Black English non è una combinazione di inglese e lingue africane, il Kiezdeutsch non è una combinazione di arabo e tedesco o turco e tedesco. È un meccanismo di trasformazione invece simile a quello operato di generazione in generazione da tutte le popolazioni, che parlano una lingua sempre diversa da quella usata dai propri genitori. Le lingue, spiega McWhorter, sono dal punto di vista delle regole molto più complesse di come poi vengono parlate in pratica, in modo da non porre limiti alla libertà espressiva di chi le parla.

Le nuove versioni delle lingue europee parlate dagli immigrati sono chiamate in linguistica “multi-etnoletti”, ma il fenomeno è ovviamente riscontrabile in tutto il mondo. L’Indonesia per esempio ha imposto l’indonesiano come lingua ufficiale di tutti i suoi abitanti, nonostante sia la lingua madre di solamente un quarto circa dei suoi abitanti: si sono perciò formate centinaia di versioni multietnolettiche della lingua, tutte come diverse forme di semplificazione. Prima queste sono state il risultato dell’adattamento di chi ha dovuto imparare l’indonesiano, ma poi sono diventate la lingua parlata anche delle successive generazioni che lo hanno appreso come lingua madre. I multi-etnoletti, spiega McWhorter, non prendono i vocaboli da una lingua e la grammatica da un’altra per unirli, come succede nelle lingue creole. È facile capire un multi-etnoletto per chi parla come lingua madre quella da cui questo è derivato (cosa che non succede con le lingue creole): ciononostante, dice McWhorter, i multi-etnoletti sono «la più fertile fonte di innovazione linguistica del nostro tempo».

Non bisogna infatti confondere i multi-etnoletti con semplici slang giovanili destinati a scomparire in poco tempo: un multi-etnoletto dello Swahili sviluppato dai figli degli immigrati in Congo all’inizio del Novecento oggi è parlato da milioni di persone. È molto probabile quindi che con il passare degli anni i multi-etnoletti in Europa – anche in Italia, specifica McWhorter – si affermeranno sempre di più, generando prevedibili allarmismi circa il deterioramento della lingua originale. In realtà non c’è da preoccuparsi, secondo McWhorter: i multi-etnoletti si sviluppano e si diffondono indipendentemente dalle lingue standard, e le persone si abituano a utilizzare i primi per situazioni informali e le seconde per quelle formali. Anzi: secondo McWhorter, se si considera l’accertata tendenza alla scomparsa delle lingue nel mondo, il fenomeno dei multi-etnoletti «è una storia di nascita».