• Moda
  • Martedì 24 novembre 2015

Come cambia l’editoria della moda

I fashion blog diventano riviste, le aziende si fanno pubblicità con Instagram, i giornali vendono vestiti online, raccontato da Rivista Studio

(DON EMMERT/AFP/Getty Images)
(DON EMMERT/AFP/Getty Images)

Silvia Schirinzi racconta su Rivista Studio la notevole evoluzione della comunicazione che ruota attorno alla moda, in Italia e nel resto del mondo: la trasformazione dei fashion blog in riviste online, le aziende che investono sempre di più sui social network, i siti di moda che vendono anche vestiti online, la frequente scomparsa della linea di confine tra editoriale e marketing.

Alcune recenti polemiche – non ultima quella sulla famigerata cover di ottobre di Marie Claire Italia, su cui trovate un round-up di opinioni qui – hanno dimostrato come di moda si debba discutere al di là della consueta lista di must-have e dei consigli di stile. Non che ci sia nulla di male in questi ultimi ma, di fronte all’ennesima staffetta di designer a capo dei grandi brand del lusso, le vecchie categorie di interpretazione si sono inceppate: nell’ultimo mese l’addio di Raf Simons, che si è separato volontariamente da Dior dopo tre anni, e quello di Alber Elbaz da Lanvin, che invece si è ritrovato costretto a lasciare hanno fatto riflettere i commentatori non solo sull’industria-moda e i suoi ritmi frenetici, ma anche su come viene raccontata. È un sistema che crolla, si sente dire da più parti. Intanto, la collezione che Oliver Rousteing, direttore creativo di Balmain, ha disegnato per H&M, crea scene di panico e isteria collettiva nel giorno del suo arrivo nei negozi, e tutti i più grandi giornali del mondo si trovano a ripostare video e foto della folla che grida Everyone wants to be a Kardashian girl.

Come si spiega tutto questo successo, che riporta alla mente le meno pubblicizzate – ma comunque mitologiche – code per le sneakers del momento o la nuova collaborazione di Supreme? Allo stesso tempo, fenomeni come la tradizionale sfilata di Victoria’s Secret – quella stessa sfilata in cui musicisti imbarazzanti cercano di esibirsi senza farsi travolgere dalle falcate di statuarie modelle – riempiono lo spazio dedicato alla moda dei magazine generalisti e specializzati (anche qui c’entra una Kardashian, quella più giovane). Sebbene il collegamento tra lo stress da burnout dei designer che si ritrovano fra le mani la direzione creativa di grandi marchi del lusso e l’ascesa di quella che viene definita la First Family ufficiosa d’America possa sembrare forzato, è interessante chiedersi cosa muova oggi l’editoria legata alla moda, e come quest’ultima si rapporti ai cambiamenti che stanno attraversando l’industria stessa.

Negli ultimi anni gli addetti ai lavori si sono quasi abituati al cambio di guardia dei designer, che dal 2012 in poi – quando Raf Simons è arrivato da Dior dopo l’affaire John Galliano e Hedi Slimane da Saint Laurent – si sono succeduti con inquietante velocità. A grandi linee, questo succedeva a ridosso della fase più dura della crisi dell’editoria – iniziata molto prima – e del contemporaneo consolidarsi del fenomeno dei fashion blogger. Pur essendosi “digitalizzata male” e in fretta, infatti, la moda è stata la prima ad abbracciare il native advertising digitale, con la progressiva diminuzione dell’advertising sui cartacei e il conseguente avanzare degli investimenti digitali, che si sono incanalati anche attraverso le nuove figure del settore, i blogger appunto, che sembravano avere l’insostituibile pregio di costare poco e raggiungere un pubblico vasto in un tempo brevissimo.

Se una volta il publiredazionale era ben individuabile all’interno del giornale – font e grana della pagina erano spesso diversi dal resto della pubblicazione – e ciò permetteva al lettore di capire immediatamente di essere di fronte a un contenuto sponsorizzato, nel mare magnum dell’Internet i confini si fanno più labili e difficili da stabilire. A voler essere specifici, però, come spiega nel dettaglio Kate Abnett su The Business of Fashion, la «separazione tra Chiesa e Stato» nel campo della moda è sempre stata piuttosto problematica, per via della natura stessa della materia: We’re in this business to sell clothes, after all, diceva qualcuno. Il sospetto, infatti, che le pagine di pubblicità corrispondessero quasi matematicamente ai crediti nei servizi fotografici era legittimo e spesso ben documentato.

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