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  • Venerdì 2 ottobre 2015

Un libro che parla di librerie

Di come funzionano, delle cose che ci succedono, e di tanti esempi in ogni angolo del mondo, se il mondo avesse gli angoli

(Phil Rogers / Flickr.com)
(Phil Rogers / Flickr.com)

È uscito per Garzanti “Librerie, una storia di commercio e passioni di Jorge Carriòn, che insegna scrittura creativa all’università Pompeu Fabra di Barcellona, e collabora come critico per diverse testate spagnole tra cui El Paìs e Letras Libres e internazionali come National Geographic e Lonely Planet Magazine. Carriòn spiega con molti esempi il funzionamento e la storia delle librerie – dalle più conosciute e storiche come la Shakespeare and company di Parigi, a quelle più isolate in Patagonia – e racconta i personaggi e gli scrittori che le hanno frequentate, alternando informazioni tecniche a citazioni letterarie. In questo estratto del libro si parla di MacDonald’s, Dave Eggers e Aureliano Buendia, di librerie catalane, di Istanbul e di Torino.

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«Nessuno, nemmeno il proprietario ottantanovenne, terza generazione, Mr. L., nessuno conosce le reali dimensioni della libreria.» Lo Chih Cheng, Bookstore in a Dream.

Nei primi mesi del 2013 ho visto una libreria quasi secolare diventare un McDonald’s. Una metafora piuttosto ovvia, se vogliamo, ma non per questo meno efficace. Molto probabilmente la Catalònia, inaugurata nel 1924 nelle vicinanze di plaza Cataluña, non è stata la prima libreria a fare spazio a un fast food. Ma questa è stata l’unica volta in cui ho assistito a una metamorfosi del genere. Per circa tre anni sono passato davanti alla sua porta di vetro e a volte entravo per dare un’occhiata, comprare un libro, consultare un testo, finché da un giorno all’altro le serrande non sono state più alzate e qualcuno vi ha appeso un semplice foglio di carta.

Giorno dopo giorno assistetti alla sparizione dei libri, vidi gli scaffali vuoti, la polvere, gran nemica dei libri, libri che già non c’erano più, che erano ormai un fantasma, un ricordo, e più il tempo passava più sprofondavano nell’oblio, finché un mercoledì non avevano più nemmeno i ripiani su cui stare. Il locale fu sgomberato e si riempì di operai che smontarono scaffali ed espositori e lo riempirono di trapani e di rumore, un rumore che per settimane mi lasciò interdetto, perché per anni, quando passavo davanti a quella porta, ciò che ne proveniva era solo silenzio e pulizia, mentre ora a uscire era una gran polvere, carriole cariche di materiali di scarto, calcinacci. Fui spettatore dell’inarrestabile trasformazione della promessa di lettura, di un’impresa fondata sulla lettura, nell’ingestione di proteine e zuccheri, in un’impresa basata sul fast food.

Non ho nulla contro i fast food. McDonald’s mi piace. Ma soprattutto lo trovo interessante: nella maggior parte dei miei viaggi ne ho sempre cercato uno per provare i piatti locali, perché in menù c’è sempre una colazione, una fajita, un hamburger o un dolce che rappresenta la versione McDonald’s di uno dei piatti preferiti dagli abitanti del posto. Ma tutto questo non rese meno doloroso quello spettacolo. Per mesi ogni mattina assistetti alla distruzione di un piccolo mondo, all’occupazione di quello spazio da parte dell’ambasciata di un altro universo, mentre nel pomeriggio leggevo libri sulla lettura e lavoravo su questo saggio.

A Torino c’è una vivace libreria storica che si chiama La Bussola. Tutte le librerie sono bussole: studiandole riusciamo a formulare interpretazioni del mondo contemporaneo più raffinate di quelle che potremmo ottenere da altre icone o spazi. Se fossi costretto a scegliere un’altra libreria che spieghi – parzialmente, perché non esistono spiegazioni complete – la dicotomia che caratterizza l’attività libraria nella nostra epoca, opterei per la Pandora di Istanbul. Il negozio è formato da due locali, l’uno di fronte all’altro, assolutamente complementari: il primo vende esclusivamente libri in turco, l’altro solo titoli in inglese; le etichette del primo marcano i prezzi in lire turche, quelle del secondo in dollari. La Pandora rende esplicita una realtà simbolica: tutte le librerie si trovano a cavallo tra due mondi, quello locale e quello imposto dagli Stati Uniti, quello del commercio tradizionale (di prossimità) e quello dei grandi centri commerciali (le catene), quello fisico e quello virtuale. Una metafora senz’altro meno evidente di quella di una vecchia libreria, una libreria classica, d’antica tradizione, una libreria fondata da Josep López, Manuel Borràs e Josep Maria Cruzet, sopravvissuta all’inverno di una dittatura e alle costanti molestie di un’agenzia immobiliare, costretta a soccombere alle implacabili, fredde e astratte leggi dell’economia dopo una così vivace resistenza politica e morale. La Catalònia chiuse e il locale, a due passi da un Apple Store, a duecento metri da una Fnac, di fronte a un Corte Inglés, è oggi un McDonald’s. Ma la metafora della Pandora, pur essendo meno evidente, è tuttavia più ottimista, perché il suo esito non è la chiusura ma la sopravvivenza. Tutte le librerie si dividono almeno tra due mondi e sono obbligate a pensare, rinunciando a qualsiasi naïveté, ad altri mondi possibili.

La Green Apple Books – come ricorda Dave Eggers nel capitolo che le è dedicato nell’antologia My Bookstore – è ospitata in un edificio che è resistito a due terremoti, quelli che devastarono San Francisco nel 1906 e nel 1989. Forse è per questo che tra i suoi ripiani si sperimenta «la sensazione che se una libreria è eccentrica e originale tanto quanto lo sono i libri, gli scrittori e il linguaggio, non ci vediamo nulla di strano». Lì comprai un libricino in edizione bilingue, pubblicato in occasione di un festival di poesia di Hong Kong, il cui titolo inglese era Bookstore in a Dream. Mi colpirono soprattutto quattro versi sulla libreria come «finzione quantica»: la sua moltiplicazione nello spazio, la sua essenza psichica, l’esistenza negli universi paralleli di Internet, la sopravvivenza compulsiva a tutti i terremoti. Se la narratrice di Danilo Kiš sogna una biblioteca impossibile in cui è conservata l’infinita Enciclopedia dei morti, Lo Chih Cheng immagina una libreria che non può essere cartografata. Una libreria come lo sono tutte: fisiche in modo tranquillizzante e inquietantemente virtuali. Virtuali perché digitali, immaginarie o perché hanno smesso di esistere. Librerie che nascono, come la Lolita a Santiago del Cile, la Bartleby & Co. a Berlino e a Valencia, la Librerío de la Plata nella periferica Sabadell o la Doria Llibres, che ha occupato il vuoto lasciato dalla Robafaves in un’altra piccola città catalana, la mia Mataró (quando un progetto diventa completamente realtà?); librerie nei recessi della nostra memoria, a poco a poco conquistate dalla finzione.

Come quella del savio catalano di Cent’anni di solitudine, che era arrivato a Macondo negli anni d’oro della compagnia bananiera e dopo aver aperto il proprio negozio aveva cominciato a trattare sia i classici sia i clienti come se fossero membri della sua stessa famiglia. L’arrivo di Aureliano Buendía in questo antro di conoscenza è descritto da Gabriel García Márquez con i toni di un’epifania:

[…] il pomeriggio in cui andò nella libreria del savio catalano […] trovò quattro ragazzi ciarlieri, infervorati in una discussione sui metodi per uccidere gli scarafaggi nel Medioevo. Il vecchio libraio, conoscendo la passione di Aureliano per libri che aveva letto solo Beda il Venerabile, lo sollecitò con una certa malignità paterna a far da arbitro nella controversia, e lui, senza neppur prender fiato, spiegò che lo scarafaggio, l’insetto alato più antico sulla Terra, era già la vittima favorita delle pantofolate nell’Antico Testamento, ma che in quanto a specie era definitivamente refrattaria a qualsiasi metodo di sterminio, dalle fette di pomodoro con borace fino alla farina con lo zucchero, perché le sue milleseicentotré varietà avevano resistito alla più remota, spietata e tenace persecuzione che l’uomo avesse scatenato fin dalle sue origini contro essere vivente alcuno, incluso lo stesso uomo, fino all’estremo che così come si attribuiva al genere umano un istinto di riproduzione, gliene si doveva attribuire un altro più definito e incalzante, che era l’istinto di uccidere scarafaggi, e che se questi erano riusciti a sfuggire alla ferocia umana, era perché si erano rifugiati nelle tenebre, dove si erano resi invulnerabili grazie al timore congenito dell’uomo per il buio, ma in cambio si erano fatti suscettibili allo splendore del mezzogiorno, di modo che già nel Medioevo, nel presente e per i secoli dei secoli, l’unico modo efficace per uccidere scarafaggi era l’abbigliamento solare.

Quel fatalismo enciclopedico fu il principio di una grande amicizia. Aureliano continuò a trovarsi tutti i pomeriggi coi quattro cavillatori, che si chiamavano Álvaro Germán, Alfonso e Gabriel, i primi e gli ultimi amici che ebbe nella vita. Per un uomo come lui, incasellato nella realtà scritta, quelle riunioni tormentose, che cominciavano nella libreria alle sei di sera e finivano nei bordelli allo spuntare del giorno, furono una rivelazione.

Quel savio catalano era in realtà Ramon Vinyes, libraio di Barranquilla e animatore culturale, fondatore della rivista «Voces» (1917-1920), prima emigrante spagnolo, poi esiliato, professore, drammaturgo, novellista. La sua libreria, la Ramón Vinyes y Co., centro culturale di primaria importanza, fu incendiata nel 1923 e ciononostante è ancora oggi ricordata a Barranquilla come una delle più leggendarie librerie del Caribe colombiano. Quando dopo un breve soggiorno in Francia scelse l’esilio nel paese sudamericano come intellettuale repubblicano, Vinyes si dedicò all’insegnamento e al giornalismo, diventando il maestro di un’intera generazione di giovani nota come «el grupo de Barranquilla» (Alfonso Fuenmayor, Álvaro Cepeda Samudio, Germán Vargas, Alejandro Obregón, Orlando Rivera «Figurina», Julio Mario Santo Domingo e García Márquez). In una delle mattine più strane della mia vita, chiesi a un tassista della stazione degli autobus di Barranquilla di portarmi in calle San Blas, tra la Progreso e la 20 de Julio, alla libreria Mundo. Dopo essere partito, il conducente mi spiegò che la toponomastica nel frattempo era cambiata e che probabilmente intendevo la calle 35 tra la carrera 41 e la 43. E lì andammo. La libreria Mundo di Jorge Rondón Hederich, dove negli anni Quaranta si riuniva il leggendario gruppo di intellettuali, erede spirituale della Ramón Vinyes y Co., era stata incendiata una ventina d’anni prima. Al nostro arrivo scoprii anche che non esisteva più. Prevedibile, ma né io né Juan Gabriel Vásquez (che mi aveva fornito l’indirizzo) ci avevamo pensato. La Mundo avrebbe dovuto trovarsi lì, ma non c’era, perché già da molto tempo esisteva soltanto nei libri:

Comunque, l’asse delle nostre vite era la libreria Mundo, a mezzogiorno e alle sei del pomeriggio, nell’isolato più affollato di Calle San Blas. Fu Germán Vargas, amico intimo del proprietario, don Jorge Rondón, a convincerlo ad aprire quel locale che in poco tempo si trasformò nel centro di riunione di giornalisti, scrittori e politici giovani. Rondón mancava di esperienza negli affari, ma imparò in fretta, e con un entusiasmo e una generosità che lo trasformarono in un mecenate indimenticabile. Germán, Álvaro e Alfonso furono i suoi consiglieri nelle ordinazioni di libri, soprattutto quanto alle novità da Buenos Aires, i cui editori avevano cominciato a tradurre, stampare e distribuire in quantità le novità letterarie di tutto il mondo dopo la guerra mondiale. Grazie a loro potevamo leggere in tempo i libri che altrimenti non sarebbero arrivati in città. Loro stessi entusiasmavano la clientela e fecero sì che Barranquilla tornasse a essere il centro di lettura che anni prima era decaduto, quando aveva chiuso la storica libreria di don Ramón.

Non era trascorso molto tempo dal mio arrivo allorché entrai in quella confraternita che aspettava come inviati dal cielo i commessi viaggiatori delle case editrici argentine. Grazie a loro fummo ammiratori precoci di Jorge Luis Borges, di Julio Cortázar, di Felisberto Hernández e dei romanzieri inglesi e nordamericani ben tradotti dalla compagnia di Victoria Ocampo. La fucina di un ribelle, di Arturo Barea, fu il primo messaggio che infondesse speranza da una Spagna remota messa a tacere da due guerre.