• Moda
  • Martedì 21 luglio 2015

Storie di Miuccia Prada

Michele Masneri raccoglie sul Foglio notizie e sentiti dire, "forse prendendo cantonate", sulla stilista più famosa e venduta del mondo

Miuccia Prada dopo una sfilata a a Milano nel 2014 (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
Miuccia Prada dopo una sfilata a a Milano nel 2014 (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Il Foglio di sabato, nella sua consueta sezione di articoli più lunghi e ritratti, ha pubblicato un’indagine di Michele Masneri su storia e aneddoti che riguardano Miuccia Prada, stilista di fama e successo mondiali e da primato, di cui – per scelta e carattere – il pubblico non sa molto. Lo stesso Masneri confessa di avere dovuto ricorrere a fonti e informazioni spesso a metà tra la leggenda e i fatti.

Non ne so niente”, “non saprei che dire, non frequenta nessuno”, “sì, son stata a casa sua, ma era tantiiissimi anni fa, non mi ricordo niente; “è off the record, vero?”. Il pezzo su Miuccia è più scomodo e rischioso di quello su Scientology. Il tema, cioè essere Miuccia, cioè Miuccia Bianchi Prada, nata nel 1948, massima icona di immaginario non solo sartoriale, è naturalmente arduo. Non solo per il solito lessico da ufficio stampa della moda a base di camouflage-iconico-contaminazione e per i timori e tremori di leggendarie riprovazioni e ripercussioni, ma perché nessuno riesce bene a spiegare come si può essere icona globale, seppur riflessiva, vestendosi e apparendo un po’ come la figlia della portinaia, col capello sfibrato e il mocassino e il calzino bianco. Venendo dai bauli e dal Pci milanese, oltretutto.

Le origini sono note: il negozio del nonno Mario Prada, aperto nel ’13 in Galleria col fratello Martino. Più in là col casato non si va, forse antenati spagnoleschi dunque manzoniani, ma c’è anche un conte Prada speculatore nel “Roma” di Emile Zola. Le origini certe danno però questo negozio, negozio non di pelletteria come si vorrebbe ma piuttosto di sfizi coloniali, di bauli e nécessaire dannunziani – di pelle di elefante, tricheco, serpente e alligatore; perché il sciur Mario non è pellettiere, è personaggio curioso, già militare di Marina, e il suo core business diventa presto il baule da piroscafo, baule dei più eccentrici, con inserti in argento e cristallo, e piace subito molto, tanto che sei anni dopo diventa già fornitore della Real Casa (e intanto, nel negozio in Galleria, ecco queso gran piroscafo affrescato, affresco teatrale un po’ salgariano, dello scenografo della Scala Nicola Benois). Anche partigiano, il Mario Prada, e infatti in queste borse, non si sa se di tricheco o elefante, porta su delle carte a Londra a don Sturzo, mentre il fratello Martino è nell’Azione cattolica e lascerà i pellami per fare politica attiva nel Partito popolare.

I Prada sartoriali, spiega Gianluigi Paracchini nel fondamentale “Vita Prada” (Baldini e Castoldi), libro non agiografico come i molti del genere maestri dell’ago e filo, derivano poi dal Mario, e il Mario ha due figlie, una Luisa e una Nanda; la Luisa sposa un Bianchi e produce una Maria Bianchi, e questa Maria Bianchi è Miuccia Prada. Miuccia è un diminutivo infatti di quelli cui solo la scienza milanese del nomignolo può arrivare. Il cognome Prada invece arriverà solo negli anni Ottanta, quando la Nanda, che è rimasta signorina e zia molto amata dai ragazzi Bianchi, li adotterà tutti per dare una continuità col casato e col pellame. Oltre a Maria e Miuccia, infatti, ci sono un Alberto e una Marina (Maria-Miuccia, in mezzo).

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