Solo un po’ d’ansia

Annalena Benini condivide le mille paure sue e di molti di noi, fino alla più attuale e intollerabile

Annalena Benini ha raccolto sul Foglio un catalogo di piccoli e comuni episodi di ansia, fra i quali aspettare alzati un figlio che è uscito dopo cena oppure ipotizzare fantasiose e gravissime malattie a partire da un formicolio alla mano. Ne viene fuori una rivalutazione dell’ansioso: «gli ansiosi soffrono per il tentativo di minimizzare la profonda carica di drammaticità delle preoccupazioni quotidiane, non accettano che sia solo un po’ d’ansia, non vogliono la normalizzazione e quando accade che una delle ansie vilipese si avveri – un gabbiano si schianta contro la finestra della cucina rompendo il vetro, un raffreddore trascurato si trasforma in polmonite – l’ansioso non può nascondere il senso di trionfo e di riscatto sociale: lui l’aveva pensato, l’aveva temuto, era rimasto insonne a immaginare la catastrofe, a cercare di mettere in guardia le persone care».

Quando tornavo a casa con sessanta secondi di ritardo rispetto al coprifuoco, trovavo mia madre già in strada a cercarmi, anzi già cento metri oltre il portone, con le chiavi in mano e lo sguardo feroce. Di giorno e di notte, anche se a volte di notte, negli umidi inverni di Ferrara, si limitava a stare alla finestra con tutte le luci accese (le chiavi dell’auto in mano, pronta a venire a cercarmi nella nebbia chissà dove). Io arrivavo, con sessanta secondi di ritardo o solo dieci secondi di anticipo e la speranza sempre delusa che stesse dormendo serena, che non pensasse a me: quelle luci erano invece la prova che, ancora una volta, avevo fatto stare mia madre in ansia. Lei mi vedeva, io sentivo il rumore di una porta che sbatteva, sempre troppo forte, e sapevo che si era rasserenata, nel giro di un paio di giorni avrebbe ricominciato a rivolgermi la parola. Dopo vent’anni, le luci accese di una casa di notte mi danno il batticuore, penso che dentro ci sia una madre con l’orologio in mano e le scarpe sotto il pigiama.

Dopo vent’anni, sessanta secondi di ritardo mi velano gli occhi, ma ho imparato a fingere tranquillità (e non divento una belva prima delle partenze): non riesco però a convincermi nel profondo che, se i miei figli sono in giro per la spiaggia o per il parco o per il supermercato e io non li vedo più, c’è un’altissima probabilità che nessuno li abbia rapiti. Quando noi facevamo il bagno in mare o affittavamo un pattino, maggiorenni oltre ogni ragionevole dubbio, mia nonna strappava di mano il binocolo al bagnino e restava in piedi a fissare il mare come un falco, senza che nessuno potesse rivolgerle la parola, anzi urlando contro chi provava a scherzare, per lei era evidente che stavamo annegando, anche con l’acqua fino all’ombelico. Poi ci vedeva tornare e, offesa ma calma, si ritirava di nuovo sul lettino. La sera in cui mio nonno tardò oltre i limiti del tollerabile (diciotto minuti), mia nonna chiamò un taxi e ordinò al tassista di prendere la strada statale verso Bologna, con nessuna speranza di incrociare mio nonno e lasciando a casa la pentola sul fuoco, ma con la necessità impellente di obbedire all’ansia.

Che tiranneggia le giornate e le notti di chi pensa che la casa stia per esplodere perché c’è di sicuro la lucina rossa del televisore accesa, che sussurra al mio amico Michele di comprare uno spazzolino da denti al giorno per il terrore di trovarsi una mattina senza spazzolino, che tiene sveglia Anna a immaginare disastri stradali in cui deve scegliere quale dei due figli salvare, che faceva ordinare a Charles Bukowski due birre insieme invece di una, perché “ho bisogno di certezze”; che impediva al protagonista del “Lamento di Portnoy” di mangiare l’aragosta (mamma, perché non possiamo mangiare l’aragosta? “Perché può ucciderti! Perché una volta l’ho mangiata e quasi morivo!”). E l’ansia che, mentre con una mano tengo il telefono vicino all’orecchio e parlo, mi fa cercare forsennatamente il telefono in tutte le borse e per tutta la casa, fino a che dico all’interlocutore: scusa ho perso il telefono è un casino ti devo lasciare, e lui dice: vabbè, forse hai solo un po’ d’ansia. Solo un po’ d’ansia, se non fossi così mostruosamente serena sarei offesa.

(Continua a leggere sul sito del Foglio)