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  • Martedì 5 maggio 2015

Non scrivere di me

La giornalista Livia Manera Sambuy racconta in un libro i suoi incontri con scrittori americani: in questo estratto, quello con David Foster Wallace in un McDonald's

Feltrinelli ha pubblicato il libro Non scrivere di me di Livia Manera Sambuy, giornalista che scrive di letteratura anglo-americana per il Corriere della Sera ed è autrice di due documentari su Philip Roth. Nel libro l’autrice racconta i suoi incontri con scrittori nord americani, fra i quali Philip Roth, Richard Ford, Paula Fox e James Purdy, e il suo rapporto con alcuni dei libri scritti da loro.

Il libro verrà presentato a Milano alla Galleria Antonia Jannone il 6 maggio.

In questo estratto, la prima parte del capitolo sull’incontro fra Livia Manera e David Foster Wallace.

***

Ho incontrato scrittori in tanti posti: luoghi accoglienti come casa loro o casa mia, freddi come gli uffici dei loro agenti, banali come caffè e ristoranti, e bizzarri come – per un’intervista a un autore indiano particolarmente impegnato – un treno che lo stava portando da Salisburgo a Monaco. Ma nessuno mi aveva mai chiesto di trovarci in un McDonald’s. E non un fast food qualunque in una città qualunque: un desolatissimo McDonald’s nella stazione di servizio di un’autostrada, due ore a sud-ovest di Chicago.

Ci voleva uno scrittore torturato come David Foster Wallace per scegliere un luogo tanto ostile. Credo che fosse il suo modo di dirmi: va bene, visto che insiste tanto accetto di incontrarla, ma guardi che lo faccio a malincuore, e non si aspetti niente di piacevole, dovrà accontentarsi di un cartoccio di patatine unte e di una generosa boccata di gas di scarico. Era il luglio del 1999, Foster Wallace aveva trentasette anni e aveva appena pubblicato negli Stati Uniti la raccolta di racconti Brevi interviste con uomini schifosi: quindi, sei anni dopo la clamorosa uscita del suo romanzo fiume Infinite Jest, e nove anni prima che Wallace si suicidasse nella sua casa di Claremont, in California.
A due giorni dall’incontro non avevo ancora trovato un mezzo per raggiungere l’area di servizio nella sterminata pianura dell’Illinois dove Wallace mi aveva dato appuntamento alle sette di sera. Mi trovavo a Chicago grazie a una fellowship dello United States Information Service che mi aveva permesso di viaggiare per un mese e mezzo incontrando persone e organizzazioni che avrebbero completato la mia conoscenza della società americana: un regalo generoso e inatteso che mi aveva portato a Seattle, Atlanta, Anchorage, Washington e ora Chicago, ad affrontare una media di cinque appuntamenti al giorno tra uffici governativi, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative e riserve indiane, dove mi aspettavano sindaci, funzionari, attivisti di vario genere, bianchi, neri, inuit e indiani di diverse tribù. Partivo la mattina con la mappa della città davanti agli occhi e arrivavo a sera stremata. Ma mai abbastanza stanca da rinunciare a infilarmi in qualche ristorante affollato a mangiare un boccone, guardandomi intorno per cercare di capire che aria tirasse in quel momento. Ricordo che a Washington avevo scoperto davanti al mio albergo un ristorante frequentato dai lobbisti, dove lo scandalo Lewinsky era ancora l’argomento del giorno. Il ristorante si chiamava The Palm e aveva una forte personalità, con dozzine di coloratissime caricature di politici e uomini e donne d’affari alle pareti, e mobili di noce scuro con tovaglie bianche. Mi piaceva sedermi al banco del bar e fare due chiacchiere con i miei vicini, come la bionda quarantenne in tailleur nero che una sera aveva attaccato bottone cercando di convincermi di quanto spregevole fosse Hillary Clinton, che non aveva chiesto la testa di quel bastardo di Bill su un piatto d’argento. Guardavo il barman in giacca bianca agitare il suo shaker luccicante e servire decine di Martini a signori vestiti di grigio con le guance rubizze, ascoltavo opinioni che non condividevo e mi divertivo.

Tra gli appuntamenti che l’Usis mi aveva organizzato a Chicago ce n’era uno con un’organizzazione non profit che impiegava giovani sotto copertura per investigare casi di corruzione e inefficienza nel governo. L’organizzazione si chiamava Better Government Association e occupava un ufficio relativamente modesto, dove a ricevermi avevo trovato un signore di mezza età in jeans e scarpe da ginnastica su una sedia a rotelle, e accanto a lui un assistente, un ragazzo in giacca e cravatta con l’aria timida del neolaureato che cerca di darsi un aspetto professionale. Il più vecchio si chiamava Bob e il più giovane Dan.

Facevano un lavoro straordinario, quei due. Indagini lunghe e complesse, spesso anche pericolose, che una volta terminate consegnavano gratuitamente alla stampa perché le pubblicasse additando alla giustizia corruttori e malversatori. Per un paio d’ore mi avevano raccontato gli ultimi casi che avevano seguito, poi, visto che si era fatta l’ora di colazione, si erano offerti di ordinare un sandwich da fuori anche per me. A quel punto ci eravamo messi a parlare d’altro e la conversazione era diventata più informale. “Per caso sapete dirmi come potrei arrivare al chilometro 225 della statale N.55, dopodomani, senza spendere una fortuna?” avevo chiesto. Affittare un’automobile era fuori questione, all’epoca non guidavo. Mi avevano guardato un po’ sorpresi. Perché mai dovevo andare in un posto simile? “Devo incontrare uno scrittore che vuole vedermi lì, pare ci sia un’area di servizio,” avevo spiegato. E quando mi avevano chiesto chi fosse questo bizzarro scrittore, avevo risposto che si chiamava David Foster Wallace, e forse lo conoscevano come l’autore di La scopa del sistema, La ragazza con i capelli strani e Infinite Jest, tre libri di narrativa che sembravano molto lontani dal loro universo, ma di cui negli ultimi anni si era parlato parecchio. Bob era rimasto indifferente. Dan invece aveva reagito come a una scossa elettrica. “Ce la porto io con la mia macchina!” aveva detto, e quasi quasi si era messo a implorarmi di dirgli di sì. “Ma sono due ore di viaggio all’andata e due al ritorno,” gli avevo fatto notare. “Posso prendere il pomeriggio libero,” aveva insistito. Per carità: non chiedevo di meglio. E tuttavia non capivo se questo bravo ragazzo con l’aria da secchione fosse vittima di un fenomeno da celebrity culture, o se a spingerlo a offrirsi volontario fosse proprio l’amore per la letteratura. “Foster Wallace è il mio scrittore preferito, è il mio idolo,” aveva aggiunto con lo sguardo emozionato, senza sciogliere il mio dubbio.

Non era stato facile far accettare a Foster Wallace la presenza di un terzo estraneo all’intervista. Sembrava che questo scrittore timidissimo vedesse secondi fini e minacce ovunque. Ogni minimo cambiamento di programma aveva il potere di renderlo inquieto e metterlo in fuga. Ma, alla fine, con la mediazione della sua agente ero riuscita a convincerlo che senza un autista non sarei mai potuta arrivare a quell’area di servizio, e che quell’autista era un suo lettore appassionato, e non potevamo certo lasciarlo ad aspettare nel parcheggio. Così, il pomeriggio dell’appuntamento Dan era venuto a prendermi al mio albergo – stavolta in jeans e maglietta – e ci eravamo messi in viaggio.

Lungo il rettilineo piatto e triste dell’autostrada, tra centinaia di Tir e in una scia di gas che riusciva a scolorire anche il rosso del sole al tramonto, Dan mi aveva raccontato di avere scoperto Foster Wallace all’epoca di Infinite Jest, quel romanzo debordante di energia che malgrado la sua aggressiva prolissità – 1079 pagine – era diventato un cult tra i giovani americani e si stava diffondendo nel resto del mondo. Da come Dan me ne parlava, era chiaro che l’esuberanza visionaria di quel libro su un’America ossessionata dall’intrattenimento, un’America in cui un film ipnotico diventava una potenziale arma terroristica capace di uccidere la gente di piacere, lo aveva entusiasmato tanto da mettere in moto un meccanismo di identificazione culturale che era quasi una febbre. Sapevo già che quel giovane scrittore che sembrava destinato a un ristretto pubblico di intellettuali era diventato un fenomeno popolare, uno per cui la gente si metteva in coda davanti alle librerie. Ma questo non mi impediva di stupirmi di fronte al fatto che le acrobazie postmoderne di Infinite Jest avevano avuto il potere di azzerare la distanza culturale tra un nerd come Dan e un tipo straripante di disordine, intelligenza e autodistruttività come Foster Wallace – uno che diceva di portare una bandana intorno alla testa per paura che gli esplodesse.

Mentre Dan guidava concentrato tra automobili e camion che procedevano alla stessa velocità come giocattoli telecomandati, avevamo parlato dei racconti di La ragazza con i capelli strani. Il primo era talmente disturbante e perverso da avere messo a disagio sia lui che me con la storia di un ragazzo privilegiato che si associa a un gruppo di punk e si diverte a fare giochetti sadici come bruciare le persone o gli animali. Io avevo detto a Dan che tra i racconti di quella raccolta avevo preferito Lyndon, forse per l’intensità con cui Wallace era riuscito a descrivere un Lyndon Johnson volgare e pieno di energia che si trova a gestire il ciclone della morte di Kennedy governando l’America sotto shock con l’aiuto di un ragazzo gay cacciato da Yale in seguito a uno scandalo. Che questo ragazzo e il suo amante nero, alla fine del racconto, si ammalassero di Aids vent’anni prima che la piaga dell’Aids esplodesse tra gli omosessuali a New York, era uno dei modi di Foster Wallace di dire: sono uno scrittore d’avanguardia, e il mio compito è abbattere le convenzioni e le barriere della narrativa per ricostruirla alla mia maniera. Questa maniera rompeva la membrana della sintassi convenzionale per utilizzare acronimi, abbreviazioni, sms, allusioni alla televisione, ai film, ai fumetti, e una prosa discontinua fatta di continue aggiunte, sottrazioni, digressioni e note a margine, che invece di scoraggiare i lettori aveva fatto breccia in centinaia di migliaia di giovani come Dan, che si riconoscevano in quel linguaggio.

In verità non credo che a Dan importasse niente che Foster Wallace avesse preso da John Barth un certo modo di introdurre la voce dell’autore nel racconto, o una certa maniera di mescolare realismo e fabulazione da Richard Brautigan, o il permesso di scrivere frasi lunghissime da Donald Barthelme. Non penso nemmeno che sapesse che aveva assorbito il senso dell’intrigo e del complotto dai romanzi di Don DeLillo, o che aveva amato Thomas Pynchon al punto da arrivare a provare per lui un odio edipico. Ma so che, per paradosso, questo ragazzo mite che mi stava accompagnando, e che assomigliava a centinaia di migliaia di altri ragazzi americani dalle vite convenzionali, ritrovava nello humour grottesco di Foster Wallace l’America in cui si era formato. E riconosceva in questo scrittore ironico, disperato e brillante fino all’implosione, alcune caratteristiche estreme della sua generazione. Normalmente, l’imprevedibilità di questo successo avrebbe dovuto lusingare Foster Wallace. Ma lui era fuori della normalità. “Si vede che gli yuppy leggono,” aveva commentato sarcastico rispondendo alla lettera di un amico che si era congratulato con lui del successo di Infinite Jest. “L’ho sempre saputo di piacere ai nerd,” aveva detto a me dopo aver dato un’occhiata a Dan.
Parlando di libri e delle inchieste della Better Government Association, Dan e io eravamo arrivati alla stazione di servizio con una ventina di minuti di anticipo sull’appuntamento: ma Foster Wallace era già là ad aspettarci con l’aria di uno che non vede l’ora di andarsene. La prima cosa che avevo pensato vedendomelo davanti abbronzato, in bermuda, camicia azzurra, Timberland slacciate e bandana rosa, era stata quanto fosse più attraente di persona che in fotografia, dove di solito aveva un aspetto da orco triste e maleodorante. Non soltanto il ragazzo dalla peluria bionda che avevo davanti aveva un viso gentile con i lineamenti irrisolti da bambino, ma aveva anche un’aria educata e linda. Quando gli avevo chiesto cosa volesse ordinare dal menu che ci guardava illuminato da sopra il banco, mi aveva risposto stupefatto: “Mangiare qui? Non sono mica matto”.
“Ma allora perché ha voluto che ci incontrassimo da McDonald’s?”
“Perché questo McDonald’s è a metà strada tra Chicago e Bloomington. Quando i miei genitori si sono separati, è qui che ci incontravamo. E poi non potevo certo chiederle di venire a Bloomington, perché sapevo che si sarebbe persa e sarebbe stata uccisa e sarebbe stata colpa mia.”

Lo aveva detto senza ironia, con un’aria tristemente angosciata, mentre Dan si offriva di prendere delle bibite e una vaschetta di patatine al banco. E sempre senza sorridere, ma stavolta in modo sprezzante, aveva aggiunto: “Lei dev’essere una persona importante, perché dovevo alla mia agente tre favori: me ne ha abbuonati due, purché facessi quest’intervista”. Gli avevo spiegato che il suo editore italiano aveva un libro da lanciare – Brevi interviste con uomini schifosi, appunto e che era il mio giornale, il “Corriere della Sera”, a essere importante. Ma lui se ne fregava. Gli avevo anche detto che Einaudi aveva già pubblicato la raccolta La ragazza dai capelli strani. E che il libro era piaciuto moltissimo ad alcuni scrittori italiani che conoscevo. “Qualunque cosa abbiano pubblicato, non sono i racconti che ho scritto,” si era innervosito. “Niente contro i traduttori. Solo che quello che scrivo è molto idiomatico, molto americano, e a me sembra intraducibile. Brevi interviste, per esempio, è un libro che non si può assolutamente tradurre.”
“Be’, lo stanno traducendo…”
“Si vede che pubblicheranno una descrizione del libro, che non è il vero libro.”

Aveva lo sguardo talmente teso dietro gli occhiali tondi che veniva spontaneo cercare di farlo sentire a suo agio. “Guardi,” gli avevo spiegato, “io non sono venuta fino a qui per farle un interrogatorio o imbarazzarla. Non ho nessuna domanda insidiosa da porle e non intendo metterla in difficoltà. Vorrei solo parlare insieme di narrativa, la sua, e magari di quella di altri autori che trova interessanti.” Ma se speravo che il mio discorso sortisse un effetto tranquillizzante mi sbagliavo.
“Voi giornalisti siete tutti uguali,” mi aveva apostrofato lui con disprezzo quando avevo estratto un bloc-notes dalla borsa. “Dite di non essere preparati e poi tirate fuori gli appunti.”
Cominciavamo male. Oppure no. Cominciavamo bene. Senza volerlo, avevo toccato un nervo scoperto.
“Perché odia tanto le interviste?”
“Perché una delle ragioni per cui gli scrittori di narrativa diventano scrittori di narrativa è che nulla di veramente importante può essere detto in modo diretto.”
Su questo ero pronta a dargli ragione, ma sapevamo tutti e due che esistevano eccezioni.
“Alcuni scrittori si rifiutano di rispondere e basta,” aveva continuato, con l’aria di dire: ed è esattamente quello che dovrei fare, salire in macchina a tornarmene a casa. “Ma i miei genitori mi hanno educato in un certo modo e quindi non riesco proprio a essere scortese. Solo che poi se rimango qui comincio a preoccuparmi per lei, mi chiedo se riuscirà a tirarne fuori un buon articolo, se pensa che quello che dico funzionerà. Oppure…”
“Oppure?”
“Oppure mi metto a inventare le risposte di sana pianta, perché penso che una bugia potrebbe essere più interessante della verità. Insomma,” aveva sospirato cominciando a sudare, “è troppo stressante.”
Poi mi aveva guardata con gentilezza: “Pensa di fumare una sigaretta? Perché se pensa di fumarla vorrei vederla fumare. Io ho appena smesso”.

Mentre Dan ascoltava in silenzio in fondo al tavolo di fòrmica bianca, ci eravamo messi a parlare di fiction, ma anche quello era un percorso accidentato. Piano piano vedevo che Foster Wallace cominciava a rilassarsi, ma appena abbordavamo un argomento nuovo – la sua ammirazione per William Gaddis, o la fascinazione provata da ragazzino per i libri di Julio Cortázar – si comportava come un ustionato costretto a muoversi in un ambiente pieno di spigoli. Quando avevo menzionato che presto anche Infinite Jest avrebbe avuto un’edizione italiana, mi aveva interrotto con un gesto della mano abbronzata, come per dire: non voglio saperne niente. “A me dicono il meno possibile di quello che fanno i miei editori. Ho un’agente che è quasi una seconda madre, e lei mi dice solo il necessario, perché altrimenti do fuori di matto. La gente mi chiede, hai un mercato in Italia, o in Francia? Ma io non voglio sapere se ho un mercato in Italia o in Francia! Quella editoriale è una torta così piccola, e invece tutti ne parlano come se fosse Hollywood. Che libro scriverai, quanto è grande la tua quota di mercato, hai sentito di quell’editor che è stato licenziato perché i suoi libri non vendevano abbastanza? La gente non la smette mai… A tutti i literary party di questo paese, l’avrà notato anche lei, non si parla d’altro… Tutto questo non ha niente a che vedere con lo scrivere. È solo ego da liceali. È come chiedersi: chi esce con la ragazza più carina? Così almeno era al liceo che ho frequentato io, prima che a scuola iniziassimo a spararci addosso.”
Cominciavo a notare che chiudeva il cerchio di qualunque argomento con una nota acuta o dolorosa, come questa allusione alla strage di Columbine di pochi mesi prima, quando due teenager avevano massacrato a fucilate tredici ragazzini in una scuola del Colorado.

Parlava con un tono pacato, ma rimaneva terribilmente teso. “Non mi dica quello che scriverà o come lo scriverà. Non lo voglio sapere. Lei mi pare una persona affidabile, e ha una faccia gentile. Se comincio a pensare al lavoro che sta facendo, mi metto a cercare di indovinare i suoi pensieri, allora le rispondo in un certo modo… e insomma, la cosa si fa complicata… e alla fine mi viene da urlare, oppure da piangere, tanto è complicata. Mettiamola così: lei è una persona carina che è venuta a mangiare un po’ di patatine con me, e basta.”

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano