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A Roma, nell’estate del 1960

Il primo capitolo del nuovo romanzo di Leonardo Colombati sulle Olimpiadi romane, i servizi segreti e il tentato rapimento di Gronchi

di Leonardo Colombati

Il 28 ottobre esce 1960, un libro di Leonardo Colombati, ambientato a Roma durante i diciassettesimi Giochi Olimpici – quelli di Cassius Clay e di Livio Berruti, di Wilma Rudolph e di Abebe Bikila. Parla di servizi segreti, di spionaggio, delle voci che descrivono un colpo di stato in preparazione che comprenderebbe il rapimento del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Leonardo Colombati è scrittore e giornalista: è redattore della rivista “Nuovi Argomenti” e ha scritto per il “Corriere della Sera”, “Il Giornale” e “Vanity Fair”. Collabora a “IL”, mensile de “Il Sole 24 Ore”.
1960 è pubblicato da Mondadori, sul Post potete leggerne il primo capitolo.

Alle quattro di pomeriggio del 25 agosto 1960, dalla base di Guidonia, un C-45 Beechcraft dell’Aeronautica militare decolla per un volo di prova dopo alcune operazioni di manutenzione. A bordo si trovano il tenente pilota Loris Barbisan, il maresciallo Elio Bizzarri, il sergente maggiore Alfio Lorenzi e il sergente E.M.B. Luciano Locatelli.

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Il caldo ha già nel fondo la polpa dolce dell’autunno, i radi cumuli di nubi sono pieni di luce fino all’orlo e dove l’orizzonte si arrotonda l’azzurro si carica di riflessi cristallini. La rotta è verso ovest: sotto la pancia dell’aeroplano sfilano i campi di girasoli e gli oliveti sulle colline dell’Immacolata, il tetto a croce della vecchia casa del fascio a Settecamini, la fettuccia striminzita di ponte Mammolo che scavalca l’Aniene. Casal de’ Pazzi svetta tra i pini, appena più in là, con le sue torri merlate; il monte del Pecoraro si distingue appena: tutt’intorno proliferano come cappelli di prataiolo le casette “da sette lire” a un piano. Per combattere l’afa i pischelli della borgata sono tutti in “piscina” a via dei Monti di Pietralata: «Scansete, roscio!», «A tutto mareee!». La vasca di mattoni in mezzo ai fossi e agli sterrati è di un contadino col fischietto al collo, che ha stabilito in cinquanta lire il prezzo d’ingresso; sarà lunga dieci bracciate, quanto basta per farsi vedere da lassù, da quel pesciolino d’argento in un acquario. La rotta è veramente questa? Guardiamo tutti fuori dai finestrini e ognuno di noi vede una città diversa… Villa Borghese ha la forma di un cuore, Villa Ada è un rene o una mano o il profilo bitorzoluto di un mostro. Da quanti minuti siamo in volo? C’è troppa luce… Giù, tutto è al suo posto: strade eleganti e quartieri malfamati, boschetti e marane, regge e baracche, nero e oro. Ma come può quest’occhio in cui il pesciolino d’argento si è trasformato – un occhio enorme, ciclopico, per metà umano e per metà macchina, un obiettivo telescopico, estremamente sensibile alla luce – apprezzare tali differenze dal suo purissimo punto d’osservazione? Quando la spinta dei motori viene ridotta e il C-45 effettua una morbida discesa con assetto livellato, è troppo tardi perché l’occhio (che ora si direbbe rimpicciolito… sembra, anzi, essersi trasformato in uno svolazzante moscone verdeoro) possa comprendere che la finestra che sta infilando è quella di un’elegante villa sul cucuzzolo dei monti Parioli – lampadari veneziani, marmi, persino un arazzo des Gobelins – e che la ragazzina in completo da tennis che se ne sta seduta sul bordo della vasca nella stanza da bagno non ha la minima possibilità di incontrare i pischelli che si lanciano nella piscina di Pietralata, nemmeno se vivesse cento vite. Che fa? Il pesciolino-mosca che le ronza attorno riesce a vedere cosa sta leggendo, con attenzione: i bugiardini di una serie di medicinali che ha appena prelevato dai ripiani dietro lo specchio. Seconal, Librium, Contergan. Barbiturici e ansiolitici. Della madre. Uhm… Si pizzica una tempia con la mano destra; solleva una gamba e l’accarezza per sentire se i peletti le sono ricresciuti; poi prende due pillole lì, altre due là, rimette i bugiardini al loro posto dentro le scatole e le scatole sui ripiani, chiude lo specchio, evita di guardarsi ed esce dal bagno, serrando le pillole nel palmo. Il corridoio è avvolto in un semibuio in bianco e nero. La madre dorme in camera sua; il padre è uscito (tennis anche lui? Probabile). Il miniobiettivo aereo segue la ragazzina scendere le scale: le sue scarpette di gomma non fanno rumore. Un primo piano troppo ravvicinato svela un minuscolo taglio sul labbro inferiore: lo mordicchia ogni volta che sogna qualcuno con cui passeggiare per le strade del centro a parlare d’amore. Tutti i giorni e le notti sono uguali per lei – tutti pieni di noia. Ma questa cosa che sta facendo, adesso… questa cosa, dopo non ci sarà niente al proprio posto: il sole e la luna si scontreranno disintegrandosi in una pioggia di fiammeggianti meteoriti.

È entrata in cucina. Una stanza grande e scura come quella delle fiabe nordiche. Su un ripiano di pietra grigia c’è un vassoio d’argento; sopra, un lungo bicchiere riempito di succo d’arancia rosso sangue. È per la signora: le piace svegliarsi così dai suoi mal di testa pomeridiani, anche se il dottore le ha detto che gli agrumi non fanno bene all’emicrania. Le pillole sono sul pianale; la ragazzina, coi peli dorati delle braccia ritti per l’eccitazione, le schiaccia con un pestello fino a farne un mucchietto di polvere bianca. Con la mano a coppa, sta per trascinare quella dose studiatamente mortale dentro il bicchiere quando alle sue spalle sente una voce – quella di Rinaldo, il cameriere: «Olimpia!».

La mosca è volata via dalla finestra.

Il C-45, intanto, è già arrivato al mare. Procedendo parallelo alla striscia gialla del litorale, trapunta di ombrelloni, ha sorvolato l’aeroporto di Fiumicino, ancora chiuso per l’ultimazione dei lavori: una delle piste – faceva una nuova canzone – aveva “tanti buchi come il formaggio”. Dopo settantuno perizie era stato accertato che per completarlo occorrevano lavori supplementari per altri cinque miliardi. Uno scandalo che sul C-45 – come si evincerà dalle registrazioni sbobinate dalla scatola nera – è oggetto di un rapido scambio di battute tra il tenente pilota e il sergente. Al minuto 37’ si sente distintamente Barbisan dire: «Amici è un intoccabile» con riferimento al colonnello Giuseppe Amici, il costruttore al quale senza gara d’appalto erano stati assegnati i lavori. L’8 settembre del ’43 Amici aveva bruciato la divisa per darsi all’edilizia insieme ad alcuni amici della Lutwaffe. Era stato persino deferito a una commissione di epurazione con l’accusa di collaborazionismo, ma nel 1950 era tornato in servizio e distaccato presso il demanio. Al minuto 41’ e 25” inizia una perorazione in sua difesa da parte del sergente Lucarelli, piena di buchi e sovrastata da un cupo ronzio di fondo, alla quale il tenente Barbisan replica con condiscendenza. L’ultima sua parola udibile è: «Guarda!». Seguono ventotto secondi di strepiti, un rumore come di brevi e violenti colpi di tosse, prima che il velivolo finisca a coda all’aria in un bosco d’aceri sul monte Pellecchia.

Più o meno in quello stesso momento, allo stadio Olimpico, la banda dei carabinieri ripeteva tre volte la fanfara per salutare l’ingresso del presidente Giovanni Gronchi, e in segno di rispetto le signore chiudevano gli ombrellini colorati fremendo in attesa degli atleti: erano in marcia in più di cinquemila dal ponte Milvio, sotto la luce opalescente del sole. Intere generazioni di estati avevano atteso compiacenti l’arrivo di quella divina policromia.

Dov’era colpita dai raggi del sole, l’erba scoloriva in un indefinito giallo zolfo, incenerita e replicata in sgranate nuance di grigio dalle televisioni dei cinque continenti; la volta del cielo era tesa, azzurra, splendente, e se a causa di non misurabili cicli astrali o per volontà divina la Terra fosse uscita proprio allora dalla sua orbita, fluttuando nel silenzio come un relitto enorme e solitario, lo smalto di quel pomeriggio romano sarebbe rimbalzato da un sole all’altro come un puntino d’inestinguibile brillantezza.

Nelle trombe squillava adesso un qualche inno alla gioia o alla sensualità atletica; gli spettatori, allo stadio o davanti agli schermi, furono attraversati dallo spirito olimpico come da un fascio di tiepida luce.

A Gianni Negri dello spirito olimpico non importava granché; ma gli bastava vedere gli occhi di Anna che luccicavano allegri per decidere che averla portata alla cerimonia d’apertura non era stata solo una perdita di tempo.

Dopo il volo di mille colombe e l’ingresso della bandiera olimpica salutata da un cannoneggiamento risorgimentale, nello stadio si erano alzati tutti in piedi per l’inno di Mameli. «Sì, anche noi, tirati su.» Che voglia di un gelato! Gianni invece sputava i gusci dei lupini, ripensava agli ultimi giorni, carichi di presagi, e stringeva il braccio nudo della ragazza appena sopra il gomito, come se stesse trattenendo un palloncino pronto a volarsene lassù, oltre il vasto arco ripiegato delle tribune al di là del monte Mario. Il suo umore, quel giorno, brillava di una luce intermittente: la felicità seguiva il sentimento della folla, l’aria stessa di quell’appuntamento con la Storia; poi, un attimo dopo, si consumava in un soffio al passaggio di certi pensieri che da giorni non riusciva a scacciare e che includevano, nei margini, la stessa Anna, ma anche l’uomo cui aveva ormai affidato – così gli sembrava – la propria educazione alla vita: un collega alla TE.TI, o meglio, un suo superiore nella compagnia dei telefoni, di sei anni più anziano dei suoi ventiquattro: Agostino Savio. Anche adesso a Gianni venne naturale guardarsi attorno per cercarlo tra gli spettatori. Agostino doveva aver preso il biglietto per quella stessa tribuna. E infatti lo vide, tre file sopra di lui.

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