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  • Giovedì 16 ottobre 2014

Cosa vuol dire curare un malato di ebola

La dottoressa Angela Hewlett racconta la sua esperienza con Richard Sacra, un americano contagiato in Liberia e guarito in un ospedale del Nebraska

di Angela L. Hewlett - Washington Post

Angela Hewlett, assistant medical director of the Nebraska Biocontainment Patient Care Unit at the Nebraska Medical Center in Omaha, Neb., gets assistance putting on protective gear during a drill in February at the biocontainment unit, where an Ebola patient is being treated. Illustrates EBOLA-DOCTOR (category a), by Angela Hewlett, Special to The Washington Post. Moved Sunday, Oct. 12, 2014. (MUST CREDIT: Taylor Wilson/Nebraska Medical Center)
Angela Hewlett, assistant medical director of the Nebraska Biocontainment Patient Care Unit at the Nebraska Medical Center in Omaha, Neb., gets assistance putting on protective gear during a drill in February at the biocontainment unit, where an Ebola patient is being treated. Illustrates EBOLA-DOCTOR (category a), by Angela Hewlett, Special to The Washington Post. Moved Sunday, Oct. 12, 2014. (MUST CREDIT: Taylor Wilson/Nebraska Medical Center)

Angela Hewlett è un medico specializzato in malattie infettive, assistente del primario all’unità per le cure con bio-contenimento al Nebraska Medical Center. Lo scorso settembre la sua unità ha curato Richard Sacra, un medico americano che aveva contratto ebola in Liberia: Sacra era stato evacuato negli Stati Uniti il 4 settembre, ed è stato dimesso dall’ospedale il 25 settembre.

La notte prima dell’arrivo del nostro paziente, il mio cuore stava esplodendo. Richard Sacra era in volo dalla Liberia: il terzo americano evacuato dal paese dopo aver contratto ebola. L’università di Emory aveva già curato con successo i primi due. Ora la patata bollente toccava a noi: combattere il virus che stava seminando devastazione nell’Africa Occidentale e paura negli Stati Uniti.

Il nostro team all’unità di bio-contenimento del Nebraska, dove sono assistente del primario, si stava preparando a quest’eventualità da anni, facendo esercitazioni sul ricovero di pazienti infetti, ripassando procedure dettagliate per il trattamento sicuro dei pazienti e memorizzando quale equipaggiamento usare per le varie malattie.

Ma questa era la prima volta in cui avremmo messo in pratica tutto questo addestramento da quando l’unità aveva aperto, nel 2005. Non c’era alcun modo di essere completamente preparati alla pressione, all’attenzione a livello nazionale, all’immensità di essere responsabili della cura di un paziente la cui malattia mortale era al centro di un dibattito mondiale.

La sfida associata al curare pazienti con malattie trasmissibili, soprattutto malattie mortali come ebola, mi aveva sempre affascinato. Con questi pazienti non puoi basarti sul contatto mano-pelle per assicurarti delle loro condizioni, e non puoi creare un legame avvicinando la sedia al loro letto e chiacchierando sulle loro vite. Nell’unità di isolamento tutto quello che Rick, il paziente, sapeva di me, era il colore dei miei occhi e la mia biografia scritta, che gli era stata consegnata al momento del ricovero. Nonostante tutto, questa era un’esperienza che aspettavo da quando ero una studentessa. In fin dei conti, leggere dei famosi “cacciatori” del virus che investigarono sulla prima epidemia in Africa aveva influenzato la mia decisione di frequentare l’università di medicina e alla fine mi aveva portato a diventare una specialista in malattie infettive. La presenza dell’NBU al Centro Medico dell’Università del Nebraska è stata una delle ragioni per cui ho lasciato il mio stato, il Texas, per trasferirmi in Nebraska.

Mentre mi preparavo mentalmente per l’arrivo di Rick, pensavo a quanto sarebbe potuta cambiare la mia vita nel giro di poche settimane. Ho pensato a come questo avrebbe influenzato mio marito e i miei bambini, e a come avrebbero reagito le altre famiglie della nostra comunità. I loro compagni di classe avrebbero fatto commenti cattivi? Sarei stata in grado di andare dal panettiere senza essere accusata di aver portato ebola a Omaha? Mi sono seduta a discutere con i miei figli di tutto questo, con parole comprensibili per la loro età. Abbiamo parlato del mio lavoro all’ospedale, e gli ho raccomandato che, se qualcuno avesse detto qualcosa di poco carino su quello che facevo, avrebbero dovuto rispondere fieramente: «Mia mamma è un dottore e si prende cura delle persone malate». Quella notte li ho abbracciati e baciati più del solito prima di metterli a letto, insicura su quello che sarebbe successo l’indomani.

Il costante afflusso di adrenalina nel mio corpo mi ha fatto sentire come un’atleta prima di una partita importante. Ebola è come il Super Bowl delle malattie infettive, un virus mortale senza nessun vaccino o terapia conosciuta. La mia ansia, amplificata dal buio, mi ha reso impossibile dormire quella notte.

Quando arrivai all’ospedale, quella mattina piovosa, trovai il nostro team di 40 persone tra dottori, infermiere, pneumologi e tecnici, che si stava preparando per l’arrivo del paziente. Stavamo condividendo le stesse emozioni: l’aria era piena di un misto di eccitamento e ansia. Mi sono messa attentamente il camice e l’ho coperto con il voluminoso equipaggiamento protettivo, prendendo nota mentalmente dell’importanza di ogni strato di plastica che avrebbe coperto ogni parte del mio corpo per le successive tre settimane. Quando il nostro paziente arrivò nell’unità – viaggiando in un’ambulanza da una base dell’Air Force fuori Omaha, dove era atterrato – eravamo pronti.

Il mio partner è il dottor Philip Smith, anche lui specialista in malattie infettive e direttore dell’NBU. Mi ha assunto in Nebraska nel 2009 ed è il mio mentore e un mio amico. Mentre stavamo in piedi fianco a fianco quella mattina, decidemmo che era meglio se solo uno di noi due fosse entrato nella stanza degli esami per quel momento, per minimizzare i contatti non necessari con il paziente. L’altro avrebbe osservato dal video e avrebbe compilato la cartella clinica elettronica del paziente con la sua storia medica e con i risultati degli esami. Phil mi disse che lui avrebbe esaminato il paziente e che io avrei dovuto occuparmi della documentazione. Mi disse che stava facendo “il cavaliere” e scherzammo sui chi avrebbe avuto il lavoro più facile, visto che scrivere annotazioni sulla cartella medica elettronica può essere un compito difficile.

I primi giorni dall’arrivo del paziente furono incredibilmente impegnativi. Lavoravo circa 14 ore al giorno cercando di risolvere un rompicapo che non aveva una soluzione definita. Provammo diversi trattamenti, somministrandogli medicine sperimentali e facendogli trasfusioni con il sangue di Kent Brantly, un dottore che era guarito da ebola qualche settimana prima. Il mio livello di stress si alzava e si abbassava a seconda delle condizioni di Rick. Nel frattempo eravamo inondati di richieste dai media. Durante le pause dai turni all’NBU, lavoravamo con la nostra squadra di pubbliche relazioni per rispondere alle centinaia di domande e richieste per interviste.

Per una settimana avevo comunicato con Rick solo attraverso uno schermo. Quando arrivò il momento di incontrarlo di persona ero ansiosa. Ma quando entrai nella sua stanza per la prima volta, mi dimenticai completamente della tuta protettiva che stavo indossando e mi focalizzai su di lui. Misi la mia mano con il guanto nella sua e la strinsi. Gli chiesi com’era andata la notte, gli feci un esame e parlammo del suo piano di cura, come avrei fatto con qualsiasi altro paziente. In quel momento sapevo che stavamo facendo la cosa giusta, occupandoci di questo paziente che aveva bisogno di noi, e non ero spaventata.

Dopo una settimana dal suo arrivo, Rick cominciò a migliorare. Sembrava più attivo, interagiva con il nostro staff e parlava con i parenti tramite video. Scherzò con noi sul baseball: lui è un tifoso dei Red Sox e Phil tifa Yankees. Nel giorno in cui per la prima volta fece un esercizio in bici nella sua stanza, ero così sopraffatta dalla gioia che cominciai a piangere proprio lì, nel mezzo dell’infermeria. Non c’è niente di più gratificante per un medico del vedere un paziente malato che comincia a guarire.

A tre settimane dal suo ricovero, Rick risultò negativo al virus. Interagire con lui per la prima volta senza le tute protettive fu un momento commovente. Nonostante gli schermi del computer, i vetri delle finestre e gli strati di plastica protettiva, eravamo riusciti a formare un legame stretto esattamente come un qualsiasi medico con un paziente. Insieme, avevamo sconfitto ebola: un tremendo virus che fino a un mese fa non esisteva nel nostro paese. Il giorno in cui fu dimesso fu emozionante per tutti, pieno di abbracci e lacrime di gioia. Tutte le persone coinvolte dimostrarono straordinario coraggio, dedizione, instancabilità e compassione.

Questa esperienza è fissata indelebilmente nella mia memoria. È stato incredibilmente impegnativo, ma molto gratificante. Lo farei di nuovo? Certo. Infatti, mentre sto scrivendo questo articolo, ci stiamo preparando a ricevere il nostro secondo paziente con ebola al NBU. Sono sicura che ci saranno altri ostacoli davanti a noi, ma siamo qui con l’intenzione di aiutare i pazienti che hanno bisogno, ed è esattamente quello che faremo. Dopotutto, come ho detto ai miei bambini: sono un dottore e mi prendo cura delle persone malate.

Nella foto Angela Hewlett riceve assistenza per indossare la tuta protettiva durante un’esercitazione nel febbraio 2012 nell’unità di bio-contenimento del Nebraska. (Taylor Wilson/Nebraska Medical Center)

© Washington Post 2014