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  • Lunedì 23 giugno 2014

Lo Zaire ai Mondiali

La storia di una squadra che nel 1974 non segnò nemmeno un gol ma entrò comunque nella storia del torneo, per un episodio molto famoso

di Francesco Marinelli – @frankmarinelli

Yugoslavia’s Branko Oblek jumps for joy, as Zaire’s substitute goalkeeper Dimbi Tubilandu beats the ground in frustration, after Oblek scored Yugoslavia’s seventh goal in the World Cup finals soccer match at Gelsenkirchen, West Germany on June 18, 1974. Other players are Yugoslavia’s Ilija Petkovie, left, and Zaire’s Ilunga Mwepu. Yugoslavia went on to win the match 9-0. (AP Photo)
Yugoslavia’s Branko Oblek jumps for joy, as Zaire’s substitute goalkeeper Dimbi Tubilandu beats the ground in frustration, after Oblek scored Yugoslavia’s seventh goal in the World Cup finals soccer match at Gelsenkirchen, West Germany on June 18, 1974. Other players are Yugoslavia’s Ilija Petkovie, left, and Zaire’s Ilunga Mwepu. Yugoslavia went on to win the match 9-0. (AP Photo)

Ai Mondiali di calcio del 1974, che si disputarono nella Germania Ovest, parteciparono 16 squadre: il regolamento prevedeva all’epoca che una di queste dovesse essere africana. A quell’edizione si qualificò lo Zaire dopo aver eliminato le nazionali di Togo, Camerun, Ghana, Zambia e Marocco. La squadra dello Zaire era davvero poca cosa, e a un certo punto questa debolezza si manifestò in un episodio che rimane tuttora uno dei più famosi nella storia dei Mondiali di calcio – è un episodio che per moltissimo tempo non è stato pienamente capito, e quindi bisogna prima sapere qualcosa della storia del posto che oggi chiamiamo Repubblica Democratica del Congo.

Un po’ di storia
Dopo decenni di amministrazione coloniale da parte del Belgio, nel 1960 re Baldovino consegnò il paese a Lumumba, il leader della corrente indipendentista della Repubblica Democratica del Congo, che ne divenne in seguito primo ministro. Lumumba fu assassinato l’anno successivo al suo insediamento. Nel 1965, dopo anni di guerra civile tra le diverse fazioni distribuite in varie zone del paese, il maresciallo Joseph-Désiré Mobutu prese il potere con un colpo di stato. Nel 1971, in nome del concetto di “autenticità africana”, il presidente cambiò il proprio nome: da Joseph-Désiré Mobutu a Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa Zabanga, che significa “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che alcuno possa fermarlo”. Per tutti era semplicemente Mobutu. Mobutu decise di cambiare anche il nome della nazione, che divenne la Repubblica dello Zaire.

Mobutu cambiò anche il soprannome con cui venivano chiamati i calciatori della nazionale: da “leoni”, divennero “i leopardi”, in onore del fatto che lui indossasse sempre in pubblico un cappello di pelle di leopardo. Per decenni fu portata avanti una vera e propria rivoluzione culturale: tutti i cittadini furono obbligati ad adottare nomi africani, negli uffici pubblici vennero imposti gli abiti tradizionali, molte città furono rinominate. Leopoldville, per esempio, divenne Kinshasa: la capitale.

La nuova nazionale
Come ha raccontato il giornalista Federico Buffa in una trasmissione televisiva dedicata ai Mondiali su SkySport, Mobutu era un grande appassionato di calcio. Per lui non rappresentava soltanto una passione sportiva, ma anche uno strumento di propaganda con cui amministrare e aumentare il proprio potere.

Mobutu decise di pagare di tasca propria i contratti dei migliori giocatori originari dello Zaire che all’epoca giocavano in Belgio (l’ex paese colonizzatore) per permettere la creazione di squadre valide nel suo paese. Il progetto portò alla formazione di una buona squadra, se non altro la migliore a livello continentale. Già prima della qualificazione ai Mondiali del 1974, infatti, lo Zaire aveva dimostrato la sua forza: sia a livello di club (due squadre vinsero tre Coppe dei Campioni africane, due il TP Englebert e una il Vita Club), sia con la nazionale, che nel 1968 e nel 1974 vinse la Coppa d’Africa. Dopo la conquista della qualificazione ai Mondiali in Germania Ovest, i calciatori della nazionale vennero invitati al palazzo presidenziale: in quell’occasione Mobutu consegnò a ognuno di loro delle buste piene di soldi, promettendo come regali una casa e un’automobile in caso di un buon risultato ai Mondiali. Mobutu sapeva che la sua squadra era una delle più deboli tra le sedici qualificate, ma chiese comunque ai calciatori di difendere l’orgoglio e la dignità della nazione, che si identificava in tutto e per tutto con la sua persona.

Lo Zaire ai Mondiali
All’epoca lo Zaire era allenato dallo jugoslavo Blagoje Vidinic, accusato in seguito dal presidente di aver confessato gli schemi della squadra alla nazionale del suo paese, la Jugoslavia, avversaria dello Zaire nel gruppo della prima fase. Ai Mondiali lo Zaire giocava con il 4-2-4, un modulo molto offensivo, nonostante l’inesperienza di tutti i calciatori a livello internazionale. Nella prima fase lo Zaire era stato assegnato al Gruppo 2. Giocò la prima partita dei Mondiali contro la Scozia e la perse per 2 a 0.

Nonostante il risultato apparisse tutto sommato “dignitoso”, Mobutu si arrabbiò molto. Fece sapere ai calciatori che non sarebbero stati pagati loro gli stipendi, né sarebbero stati assegnati i premi promessi prima dei Mondiali: tra i calciatori ci furono molte proteste e alcuni minacciarono di non scendere in campo nelle partite successive, anche se poi non lo fecero.

Nella seconda partita del gruppo 2, lo Zaire la giocò contro la Jugoslavia. Dopo tredici minuti la squadra di Vidinic perdeva 3 a 0. Secondo quanto racconta Federico Buffa, dopo il terzo gol arrivò una telefonata da Kinshasa che fu trasmessa alla panchina: all’allenatore fu imposto di cambiare immediatamente il portiere titolare, Muamba Kazadi, che uscì dal campo piangendo. Kazadi, che era uno dei leader della squadra, fu sostituito dal portiere di riserva Dimbi Tubilandu, ma lo Zaire dopo pochi minuti prese il quarto gol. Il primo tempo finì 6 a 0 per la Jugoslavia; l’intera partita finì 9 a 0.

Dopo la fine dell’incontro, Mobutu decise di prendere uno dei suoi aerei privati e di volare in Germania. Insieme a lui partirono anche alcuni funzionari governativi, armati e vestiti con abiti di cuoio: dopo essere atterrati, i funzionari entrarono nell’albergo in cui risiedeva la squadra e chiesero di avere un colloquio con i calciatori e l’allenatore, a cui furono riferiti ordini precisi da parte del presidente per la partita successiva. Il 22 giugno a Gelsenkirchen si giocò la terza e ultima gara del gruppo 2. Lo Zaire doveva affrontare il Brasile, che all’epoca era la squadra campione del mondo in carica. La priorità dei calciatori dello Zaire era come minimo evitare un’altra goleada; quella del fortissimo Brasile, la cui qualificazione alla fase successiva era ancora in forse, era segnare almeno tre gol e non subirne.

La partita contro il Brasile
A dieci minuti dalla fine della partita, quando il Brasile era in vantaggio per 3 a 0, ci fu un calcio di punizione per il Brasile dal limite dell’area dello Zaire. Intorno alla palla c’erano tre giocatori brasiliani ma quello che la sistemò fu il numero sette Rivelino, che probabilmente avrebbe calciato di sinistro. Prima che l’arbitro fischiasse, però, dalla fila dei giocatori dello Zaire in barriera si staccò il numero due Mwepu Ilunga: si diresse verso Rivelino e calciò il pallone lontano di almeno cinquanta metri. I giocatori del Brasile si guardarono sorpresi; la palla tra l’altro sfiorò il viso di Rivelino. L’arbitro della partita, il romeno Nicolae Rainea, ammonì il difensore dello Zaire. Mwepu Ilunga si rivolse verso di lui allargando le braccia, come fosse incredulo per la sua decisione di ammonirlo: sembrava essere in uno stato di grossa confusione.

Il brasiliano Rivelino non riuscì a trattenersi e gli venne da ridere, pensando che Mwepu non conoscesse neanche le regole del gioco. Il calciatore dello Zaire si arrabbiò ancora di più e gli gridò in faccia: «E tu, cosa ridi?». Per molto tempo quel gesto fu infatti oggetto di derisione, considerato in qualche modo il simbolo di un’arretratezza culturale calcistica spesso associata all’Africa.

Il motivo di quel calcio folle si comprese soltanto molti anni dopo. I funzionari del governo che si erano presentati nell’albergo dello Zaire qualche giorno prima della partita contro il Brasile, avevano chiuso i giocatori in una stanza e li avevano minacciati. Spiegarono che al Brasile servivano tre gol per qualificarsi alla seconda fase, e fino a quel punto non ci sarebbero stati problemi. Ma secondo vari racconti i dirigenti minacciarono gravi ritorsioni contro i calciatori (e le loro famiglie) nel caso il Brasile avesse segnato più di tre gol.

La partita fu vinta dal Brasile per tre a zero. Tornati in Zaire i calciatori vennero comunque trattati molto male, come dei traditori: non ricevettero mai alcun premio e alcuni finirono emarginati e in povertà.

La versione di Mwepu Ilunga
Mwepu Ilunga, nato il 22 agosto 1949, quella partita non avrebbe neanche dovuto giocarla. Quattro giorni prima contro la Jugoslavia l’attaccante dello Zaire Mulamba N’Diaye venne espulso dall’arbitro colombiano Omar Delgado, per un calcio nei suoi confronti considerato volontario. Si trattò però di uno scambio di persona, perché a dare il calcio era stato proprio Mwepu, per sua stessa ammissione, ma l’arbitro decise di espellere comunque Mulamba N’Diaye.

Nel 2002 Mwepu raccontò alla BBC: «Pensavamo che saremmo diventati ricchi, appena tornati in Africa, ma dopo la prima sconfitta venimmo a sapere che non saremmo mai stati pagati e quando perdemmo 9 a 0 contro la Jugoslavia gli uomini di Mobutu ci vennero a minacciare. Se avessimo perso con più di tre gol di scarto col Brasile, ci dissero, nessuno di noi sarebbe tornato a casa». Ancora oggi è possibile acquistare sul sito di eBay una maglia con la stampa della faccia di Mwepu Ilunga con il suo nome. Oltre che un atto evidentemente determinato dalla paura di morire, quel gesto venne considerato in seguito da molti anche come un simbolo di ribellione nei confronti della dittatura.