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  • Martedì 27 maggio 2014

La retorica dell’impossibile

Le idee di Pippo Civati per il cambiamento in Italia, nel suo nuovo libro Qualcuno ci giudicherà

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse29-03-2014 RomaPoliticaIncontro sulla legalità e la corruzione "Giorno Legale" di Pippo CivatiNella foto Pippo CivatiPhoto Fabio Cimaglia / LaPresse29-03-2014 Rome (Italy)PoliticMeeting on the rule of law and corruption "Giorno Legale" with Pippo Civati In the photo Pippo Civati
Foto Fabio Cimaglia / LaPresse29-03-2014 RomaPoliticaIncontro sulla legalità e la corruzione "Giorno Legale" di Pippo CivatiNella foto Pippo CivatiPhoto Fabio Cimaglia / LaPresse29-03-2014 Rome (Italy)PoliticMeeting on the rule of law and corruption "Giorno Legale" with Pippo Civati In the photo Pippo Civati

Einaudi ha pubblicato il libro Qualcuno ci giudicherà di Pippo Civati, deputato del Partito Democratico già candidato alle primarie per la segreteria, e blogger del Post. Nel libro Civati espone la sua idea di politica e le sue proposte per il rilancio dell’Italia, e racconta, a partire dalla campagna condotta lo scorso anno per le primarie per l’elezione del segretario del PD, quali sono le differenze fra la sua visione della sinistra e quella del Presidente del Consiglio Renzi.

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Da troppi anni in Italia c’è una retorica dell’impossibile. Una retorica che si preoccupa di segnalare ciò che non va senza prendere i provvedimenti conseguenti, o che allarga le braccia di fronte alle soluzioni come a dire: «Sarebbe bello, ma non è possibile», atteggiamento immediatamente precedente alla giustificazione di qualsiasi pratica e del successivo, inevitabile compromesso.
È un continuo susseguirsi di espressioni negative − non è tempo per noi; i giovani sono la generazione perduta; i cervelli fuggono e i problemi restano − all’insegna di un’irriformabilità assunta come dato insuperabile: una sensazione da finis terrae e da fine del mondo che incombe. E tutto si fa emergenza, tutto invita alla velocità, a una costante accelerazione. Del nulla.
La cultura del baratro, in cui ogni cosa è all’ultimo stadio, in cui non hai più alternative (ma solo perché le hai sprecate tutte), in cui ogni cosa sa di odioso ricatto: o si fa così, o niente. Poi non importa se quello che facciamo non va bene. Che cosa potevamo fare di diverso, di fronte al baratro?
Questa retorica è funebre anche quando parla di qualcosa di nuovo. È piena di contumelie, di turpiloquio (il vaffa è liberatorio, ma se diventa una filosofia di vita c’è qualcosa che non va), estreme unzioni, esequie, morti, zombie: un paesaggio gotico. Ci si insulta, i toni sono sempre esasperati, il conflitto è drammatizzato e mai affrontato e risolto.
Prima di precipitare, si dovrebbe provare a ribaltare la questione. All’insegna di un motto che tenga insieme le cose, che parta da una rigenerazione necessaria: «Se non cambi tu, non cambia niente»; o, se preferite: «Le cose non cambiano se non sei tu a cambiarle». Anche la celebre frase di Kennedy: «Non chiederti quello che può fare il tuo Paese per te, chiediti quello che puoi fare tu per il tuo Paese», va bene; in Italia, però, va corretta e rafforzata: quello che puoi fare tu per il tuo Paese, ma pure quello che il tuo Paese può fare per te.
Tenere insieme i due livelli non è semplice, e per riuscirci ci vuole qualcosa di «antico». Ci vuole la politica. Sarà fuori moda, ma va pensata, riflettuta, organizzata, comunicata e promossa. Sulla base di un disegno che fa rima con impegno.
Come voleva Alexander Langer − pensatore che andrebbe riscoperto e portato a chi, per motivi di età, non ha avuto modo di conoscerlo − quando, in uno dei suoi ultimi lavori, rifletteva sulle difficoltà che la politica stava incontrando. Langer scrive nel 1995, ma le righe che seguono, tratte da Il viaggiatore leggero, potrebbero adattarsi perfettamente anche alla stagione attuale:

È un tempo, questo, in cui non passa giorno senza che si getti qualche pietra sull’impegno pubblico, specie politico. Troppa è la corruzione, la falsità, il trionfo dell’apparenza e della volgarità. Troppo accreditati i finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo evidente la carica di eversione e di deviazione che caratterizza mansioni che dovevano essere di estrema responsabilità. Troppo tracotanti si riaffacciano la durezza sociale, la logica del più forte, la competizione selvaggia.
Davvero non si sa dove trovare le risorse spirituali per cimentarsi su un terreno sempre più impervio. Non sarà magari più saggio abbandonare un campo totalmente intossicato da non poter sperare in alcuna bonifica, e coltivare – semmai – altrove nuovi appezzamenti, per modesti che siano?

Langer parlava di Giona, precettato per raccontare agli abitanti di Ninive una novella così pesante e sgradevole che, pur di evitare il compito, preferì imbarcarsi sulla prima nave che andava in direzione opposta alla città.
Giona è un profeta «contro-voglia», un uomo della provvidenza suo malgrado, che cerca di resistere all’incarico che gli viene conferito. Cerca di sottrarsi al messaggio, nota ancora Langer, della demagogia: fosse per lui, il messaggio nemmeno lo porterebbe. Anche perché è carico di angoscia.

Il suo racconto ci dice che siamo già nel ventre della balena (e qualcuno penserà alla balena bianca in cui sono conservate le larghe intese, ma questa volta è un’altra storia): quando Giona arriva a Ninive, la città si converte e, insieme ai semplici cittadini con i loro comportamenti individuali, sono il re e i suoi «grandi» a intervenire. Langer chiosa così: «Occorrono comportamenti personali, ma anche “decreti del re”». Quello che puoi fare tu per il tuo Paese, ma anche quello che il tuo Paese può fare per te, insomma. Poi Giona si ritira − dispiaciuto che la sua mediazione non si sia rivelata necessaria, perché la punizione divina, alla fine, non è arrivata − e per proteggersi da un sole violentissimo si ripara all’ombra di una pianta, un albero di ricino, che però, subito (altro avverbio tipico della politica italiana), si secca. Giona si dispera ed è immediatamente rimproverato per il suo atteggiamento che in politichese si definirebbe ombelicale. Dio gli si rivolge con durezza:

Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?

Notare bene: gli abitanti di Ninive non sanno distinguere la destra dalla sinistra, e si sono perduti. Un insegnamento da tenere a mente, perché l’indistinzione tra destra e sinistra è una delle questioni fondamentali dell’attuale fase politica. Così come lo è il trasversalismo, sul quale torneremo più avanti.
Le profezie non si avverano, insomma. E quel subito si rovescia nel mai, nel suo contrario.
Le rivoluzioni non si annunciano, al massimo si celebrano a cose (finalmente) fatte. Perché sono troppi anni che snoccioliamo soluzioni, programmi, progetti, iniziative, ma nessuno sembra avere cura degli esiti.
Una promessa assomiglia sempre più a una bugia. Al crescere delle promesse di solito corrisponde un crollo dei risultati. E una sorta di strano fenomeno: tutti promettono, nessuno verifica.
E invece bisogna fare qualcosa di molto diverso dal promettere cose che sono popolari oggi e domani chissà se le faremo. Bisogna fare qualcosa che sia piuttosto il rovescio: far diventare popolari cose che non lo sono, non fermarsi al presente, che di per sé può voler dire poco. A volte per affrontare l’attualità dobbiamo trovare il modo di essere inattuali, viaggiare attraverso il tempo, come il vagabondo delle stelle di Jack London, che lo faceva nei momenti in cui la sua prigionia diventava più dura e la costrizione più opprimente.

«Nelle nostre possibilità» è una bella espressione. Richiama un motto diventato un manifesto con Karl Marx ma che risale addirittura agli Atti degli apostoli. Invita all’azione, a fare ciò che si può fare. E che si deve fare. Ci dice che ci sono sempre alternative (a dispetto di Margaret Thatcher, che si inventò l’acronimo Tina, There is no alternative, senza immaginare che sarebbe diventato così popolare in Italia, anche a sinistra). E ci dice che la sinistra dovrebbe essere la parte politica che coltiva le possibilità, che mette in discussione ciò che trova, che ha idee (si spera migliori, più efficaci e potenti) per risolvere i problemi, per superare i conflitti, per cambiare le cose. Che si cambiano, cambiandole, come abbiamo ripetuto fino allo sfinimento, perché troppe volte – anche ora – la politica minaccia cambiamenti che tardano a manifestarsi e a essere interpretati direttamente da chi li enuncia.
Nelle nostre possibilità c’è la misura e il rigore di proposte che possano essere, appunto, possibili. E sostenibili.
Nelle nostre possibilità c’è una politica diversa e un’Italia che si libera, a volte anche da sé stessa. Nelle nostre possibilità c’è l’idea (che può salvare) che non esista un destino o una necessità che presiede a tutte le decisioni, con la conseguente sensazione che abbiano già deciso per noi e che tutto sia predeterminato. Dai mercati, dall’Europa, da non-si-sa-chi che ha già stabilito ogni cosa, negando di fatto la politica. Azzerandola. Asservendola a una logica che le sfugge e che certo non può governare. Una politica cui è stato tolto il senso. Come se l’avessero messa sottovuoto, le avessero tolto l’aria, l’avessero chiusa in un sacco.
Nelle nostre possibilità c’è l’idea che non tutto sia trasversale, che esistano ancora una destra e una sinistra, che ci siano battaglie giuste e altre sbagliate, e che anche nelle battaglie giuste si possano annidare cose sbagliate.
Nelle nostre possibilità c’è infine quel che si può pensare di diverso, di alternativo, non per il mero gusto della critica, ma per cambiare ciò che non va e che fa soffrire. Rifiutare il conformismo e non avere paura delle idee è il primo passo. Come dice Gustavo Zagrebelsky in Fondata sulla cultura:

L’alternativa è chiara. Si può preferire il gregge, cioè il conformismo, la moda, l’indolenza del pensiero. Ma, se si vuole vivere in libertà, non si deve avere paura delle idee. Osa pensarle! Non dire mai: non sono capace d’idee! Tutti ne sono capaci. Se dici così, è perché ti accontenti d’essere conformista. E, non solo osa pensarle, ma osa dirle! Le idee racchiuse in se stesse s’inaridiscono e si spengono. Solo se circolano e si mescolano, vivono, fanno vivere, si alimentano le une con le altre e contribuiscono alla vita comune, cioè alla cultura. Perfino l’eremita, se vuol vivere, deve intessere dialoghi d’idee, con se stesso e col suo dio.