Il giornalista freelance inglese Adam Higginbotham ha seguito dalle cinque di un mattino di dicembre Bob Menzer, 54 anni, capo della piccola squadra di lavavetri che si occupa della Hearst Tower, il grattacielo con le vetrate più complicate da pulire di Manhattan. Là, in cima al mondo, Menzer gli ha detto, commentando quel che avviene nei palazzi vicini, «si vede tutto. Certa gente non è capace di chiudere le tende». Il tema della particolarissima professione di lavavetri sui grattacieli di New York è raccontato da Higginbotham in un articolo di cinque pagine sul New Yorker della settimana passata. E il caso da cui parte è quello della Hearst Tower.
Quando l’architetto Norman Foster presentò il progetto di un nuovo imponente grattacielo da costruire nella Ottava Strada di Manhattan, uno dei problemi che i potenziali finanziatori sollevarono fu come lavarne le ampie vetrate in parte inclinate. La Hearst Tower era il primo progetto approvato a Manhattan dopo gli attentati dell’11 settembre 2011. Le facciate sono definite da grandi triangoli di vetro incorniciati da un telaio di acciaio, in una specie di reticolato che termina in forme concave sugli spigoli della struttura. Gli architetti li chiamarono “becchi”.
I ponteggi mobili utilizzati fino a quel momento per lavare le vetrate degli altri grattacieli di New York non erano adatte alla struttura del nuovo progetto, e Foster si rivolse alla Tractel-Swingstage, un’azienda di Toronto costruttrice di impalcature di quel tipo. Agli ingegneri dell’azienda ci vollero tre anni per trovare una soluzione per i becchi di Foster, che costò circa tre milioni di dollari: un accrocchio «grande come una Smart» appeso a una rotaia che circonda il tetto del palazzo e usa un braccio telescopico. Un computer governa sessantasette sensori e comandi di sicurezza che necessitano di un’ora di verifiche e assestamenti prima che ogni mattina inizi il lavoro di lavaggio (fatto banalmente con acqua, sapone da vetri e un secchio). «Come farsi un giro a Disneyland», disse del nuovo ponteggio Scott Borland, il responsabile del progetto.
La professione del lavavetri di palazzi iniziò a estendersi a New York alla fine del diciannovesimo secolo, quando cominciarono ad essere costruiti i primi grattacieli. I primi a creare dei piccoli gruppi organizzati di lavoro furono gli immigrati polacchi, ma negli anni la professione è diventata prerogativa anche di ucraini, italiani, irlandesi e ora sudamericani. A quel tempo i lavavetri non avevano a disposizione impalcature da milioni di dollari: si sporgevano dal davanzale appoggiandosi al cornicione. Col tempo iniziarono ad usare delle cinghie di cuoio più sicure legate alla vita e assicurate da alcuni appigli a lato delle finestre degli edifici.
Quando nel 1931 venne completata la costruzione dell’Empire State Building, a New York c’erano tra i due e i tremila lavavetri (ne morivano tra i 10 e i 15 all’anno in servizio). Oggi Joey Fitzgerald lavora da 19 anni all’Empire State Building e viene definito dai colleghi «l’uomo numero uno sull’edificio numero uno della città». Il socio di Fitzgerald, Andy Hock, ha una storia simile a molte altre storie famigliari di lavavetri del secolo scorso. Suo padre era un immigrato tedesco di seconda generazione nato a Brooklyn e seguito nella sua professione dai cinque fratelli. «Ho avuto tre figlie, non ho nessun figlio maschio», dice Hock. «Ma sono sicuro che una di loro quando sarà grande mi dirà “Papà, prendi a lavorare mio marito come lavavetri”». Sul suo incarico all’Empire State Building – che dura dal 1966 – Hock dice: «Ho buttato fuori King Kong. L’edificio è mio ora», riferendosi al finale del film del 1933 in cui il famoso gorilla viene ucciso dal fuoco degli aerei in cima all’Empire State Building.