• Italia
  • Domenica 16 dicembre 2012

Tra Piombino e Taranto

Adriano Sofri racconta su Repubblica differenze e somiglianze tra i due centri italiani più importanti nella produzione dell'acciaio

This picture shows the ILVA steel plant on November 27, 2012 in Taranto. Hundreds of striking Italian steel workers occupied offices at the giant ILVA plant in Taranto on Tuesday, a day after the company said it would shut down due to legal action over massive pollution. Placard reads : “Without work, no future”. AFP PHOTO / DONATO FASANO (Photo credit should read DONATO FASANO/AFP/Getty Images)

This picture shows the ILVA steel plant on November 27, 2012 in Taranto. Hundreds of striking Italian steel workers occupied offices at the giant ILVA plant in Taranto on Tuesday, a day after the company said it would shut down due to legal action over massive pollution. Placard reads : “Without work, no future”. AFP PHOTO / DONATO FASANO (Photo credit should read DONATO FASANO/AFP/Getty Images)

Oggi su Repubblica Adrian Sofri racconta quali sono le somiglianze (poche) e le differenze tra due dei più importanti stabilimenti industriali italiani nella produzione dell’acciaio: quello dell’ILVA di Taranto di proprietà della famiglia Riva e quello della Lucchini di Piombino, oggi di proprietà «più o meno di nessuno». Diverso, per esempio, è il tipo di produzione e il fatto che a Piombino non c’è la quantità di diossina che si respira a Taranto; entrambe però sono fondamentali per l’industria italiana, se si pensa alla grandezza e alla diffusione degli stabilimenti dell’ILVA, compreso l’indotto, e la produzione delle rotaie per le linee dei treni ad alta velocità negli altiforni di Piombino.

Piombino e Taranto hanno mare e acciaio, e un po’ si assomigliano, fatte le proporzioni – Piombino ha 36 mila abitanti. Di Taranto si sa. Anche Piombino se la vede bruttissima. Alla Lucchini, 2.100 dipendenti (di cui quattro donne operaie, e sessanta stranieri) più 1.500 dell’indotto, età media 32 anni, giovedì mattina si è fermato l’altoforno, in teoria fino all’11 gennaio. Spiega Mirko Lami, operaio e sindacalista: “La produzione era già bassa, dunque anche la temperatura della parte inferiore, il crogiolo, sicché c’è il rischio che la ghisa si rapprenda.

Successe già nel 1989, bisognò forare e piazzare la dinamite, poi entrare con le motopale, ma viene giù anche il refrattario e bisogna ricostruire tutto, e costa carissimo. L’altoforno è una bestia larga 14 metri e alta 30, può sfornare 2,3 milioni di tonnellate di ghisa, nell’ultimo anno ne ha tirate fuori solo 1,2 milioni, il minimo. Siamo preoccupati”.

Gli impianti siderurgici a ciclo integrale in Italia sono due, Taranto (che di altoforni ne ha cinque, e ne ha appena spento uno) e Piombino. L’Ilva è, finché dura, dei Riva. L’acciaieria di Piombino non è di nessuno, più o meno. Ha una storia più che secolare, e non tanti anni fa ci lavoravano in ottomila. Privatizzata coi Lucchini, passò ai russi della Severstal (stal, acciaio, come Stalin…), che progettarono un nuovo altoforno, tre milioni di tonnellate: “Ci lavorammo sei mesi, e nel 2008, all’arrivo della crisi, in tre giorni liquidarono tutto”.

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Foto: lo stabilimento dell’ILVA di Taranto (DONATO FASANO/AFP/Getty Images)