Quanto si guadagna con la musica in rete?

Poco poco: un cantautore americano mostra i numeri che ricava dall'ascolto delle sue canzoni su Pandora e Spotify

NEW YORK, NY – NOVEMBER 30: Spotify Founder and CEO Daniel Ek attends Spotify knocks it out of the park at Stephen Weiss Studio on November 30, 2011 in New York City. (Photo by Charles Eshelman/Getty Images for Spotify)

NEW YORK, NY – NOVEMBER 30: Spotify Founder and CEO Daniel Ek attends Spotify knocks it out of the park at Stephen Weiss Studio on November 30, 2011 in New York City. (Photo by Charles Eshelman/Getty Images for Spotify)

Damon Krukowski è un musicista di Boston che con sua moglie Naomi Yang forma il duo Damon and Naomi, che ha avuto qualche notorietà nel decennio scorso, quasi solo negli Stati Uniti. Alla fine degli anni Ottanta, insieme al chitarrista Dean Wareham, facevano parte dei Galaxie 500, un’altra band pop-rock che ottenne un piccolo successo con il singolo Tugboat. Secondo Krukowski ogni generazione di musicisti è convinta di aver vissuto un momento di grandi cambiamenti ma quelli che si sono verificati nell’industria musicale negli ultimi vent’anni sono davvero straordinari: oggi non è più possibile per un musicista guadagnare anche solo un modesto stipendio dai propri dischi ed è diventato molto difficile anche per quei musicisti che gestiscono direttamente i diritti d’autore sui propri lavori.

In un articolo su Pitchfork Krukowski ha fatto un calcolo di ciò che lui e sua moglie guadagnano dai diritti delle loro canzoni prendendo in esame i servizi gratuiti di musica on demand più diffusi negli Stati Uniti: Pandora e Spotify. Pandora è una web radio che offre un servizio di straming gratuito (non accessibile al di fuori degli Stati Uniti) con cui è possibile creare una vera e propria emittente personale in base alle proprie preferenze musicali. Spotify è un servizio musicale on demand che offre lo streaming di una selezione di brani di varie case discografiche e dove gli utenti possono creare playlist, condividerle e modificarle con la collaborazione di altri utenti. A luglio 2011 il catalogo di Spotify consentiva l’accesso a circa 15 milioni di canzoni.

Krukowski dice di essere molto contento che i suoi pezzi degli anni Ottanta siano ancora ascoltati grazie al web ma il suo calcolo dice che Tugboat è stata ascoltata 7.800 volte su Pandora nei primi 3 mesi del 2012 e ha fruttato in tutto 21 centesimi di diritti, 7 per ogni autore del pezzo. Su Spotify invece, nello stesso periodo di tempo, la canzone è stata ascoltata 5.960 volte, fruttando in totale un dollaro e 5 centesimi, 35 centesimi per ogni autore. In prospettiva, per arrivare alla somma corrispondente a quella guadagnata per un solo disco venduto, la canzone dovrebbe essere ascoltata 312 mila volte su Pandora e 47.680 volte su Spotify.

Questo modello è secondo Krukowski molto simile alla speculazione finanziaria: Pandora e Spotify non vendono beni materiali ma soltanto l’accesso a un determinato bene, in questo caso una canzone. Entrambi i servizi online hanno registrato gravi perdite nei propri bilanci, ma questo sembra non rappresentare un problema per loro: non sono etichette discografiche interessate a vendere un prodotto, ma puntano alla crescita e all’incremento del numero di contatti sulle proprie piattaforme. Krukowski non vuole criticare il sistema in sé, lui stesso ha sottoscritto l’abbonamento mensile da 9,99 dollari a Spotify (l’equivalente di più di 680 mila ascolti di Tugboat) perché, come spiega, gli consente l’accesso fino a poco tempo fa impensabile a una quantità smisurata di musica. Quello che non lo convince è che questo nuovo tipo di fruizione della musica sia visto come un vero e proprio modello di business.

Pandora paga le licenze per lo streaming a SoundExchange, l’agenzia responsabile negli Stati Uniti per il “digital rights collecting”, che raccoglie, gestisce e redistribuisce le royalty digitali per conto di artisti, case discografiche ed autori. Da tempo Pandora vorrebbe vedere ridotte per legge le percentuali pagate per lo streaming online, spingendo per l’emanazione di un nuovo Internet Radio Fairness Act, una serie di norme che sono nell’agenda del Congresso degli Stati Uniti, che dovrebbero abbassare le tasse sui diritti d’autore e di conseguenza le somme versate dai siti che offrono musica on demand. Ieri, in risposta alle richieste di Pandora, più di cento musicisti hanno scritto una lettera aperta che verrà pubblicata sul prossimo numero di Billboard. I firmatari, tra cui Don Henley, Billy Joel, Sheryl Crow e Rihanna chiedono a Pandora di ridiscutere la sua proposta, facendo leva sul fatto che Pandora intende restringere i diritti d’autore su cui fanno giustamente affidamento migliaia di musicisti.

foto: Charles Eshelman/Getty Images for Spotify