• Italia
  • Domenica 30 settembre 2012

La storia di Enzo Tortora

L'ha raccontata un libro qualche anno fa, e vale la pena recuperarla, che si voglia guardare la fiction televisiva o no

Enzo Tortora in aula in una pausa del processo a Napoli (Lapresse)

Enzo Tortora in aula in una pausa del processo a Napoli (Lapresse)

Applausi e sputi è la bella e drammatica biografia di Enzo Tortora scritta da Vittorio Pezzuto e pubblicata nel 2008 da Sperling & Kupfer. Ha naturalmente al centro la fase della vita di Tortora diventata più vergognosamente famosa nella storia d’Italia: quella del suo arresto per le false accuse di alcuni cosiddetti “pentiti”, della sua tormentata e dolorosa storia giudiziaria e di quei cinque anni che si conclusero con la sua morte per tumore a un polmone meno di un anno dopo la sua assoluzione. Questo è il racconto dell’avvio di quei cinque anni, che segue i capitoli dedicati alla vita di Tortora fino ad allora e ai suoi successi giornalistici e televisivi, fino a quello tuttora ricordato della trasmissione Portobello.

Si avvicina intanto la fine del sesto ciclo di rintocchi del Big Ben televisivo e Tortora si interroga sull’eventualità di prorogare ulteriormente la vita di Portobello. Nonostante il grande numero di variazioni apportate negli anni, non si può infatti pensare di proporre la sua formula all’infinito. D’altra parte l’idea continua a funzionare e dopo questa trasmissione (la prima a fare a meno dei gettoni d’oro e degli ospiti d’onore, la prima a dire no alle lotterie della memoria) perfino molti quiz si sono «portobellizzati». Nessuno può negare che il programma abbia segnato una svolta autentica nel gusto, nello stile, nel modo stesso di fare televisione. Annota lo stesso Tortora:

Non posso che esserne felice e non posso che sentire il peso, la responsabilità di dare un erede a questo pappagallo. E poi parliamoci chiaro: chi butterebbe via, coi tempi che corrono e con un pubblico sempre più distratto, una trasmissione che quando va male registra ancora venti milioni di spettatori? Io ricevo ogni mattina lettere a migliaia. Sono di persone molto care che mi dicono: «Continui! Il venerdì lei ci tiene compagnia». Queste, credetemi, sono le soddisfazioni più vere. D’altro lato ci sono (e guai se non ci fossero) gli snob, i critici superciliosi, quelli che definiscono «paccottiglia provinciale e strappalacrime» il mio programma. Liberissimi di farlo. Ma obbligati a dimostrare (loro che sono tanto in gamba, tanto bravi, tanto intelligenti), una volta varato un loro programma, di portarlo a indici di ascolto decenti. Io non ho mai avuto protettori o santi in paradiso. I miei santi stanno tutti in poltrona, ogni venerdì sera. Tutto questo per dirvi, amici, che la parola «fine» s’avvicina.

La pronuncia infatti la sera del 3 giugno, al termine dell’ultima puntata di Portobello, guardando il suo orologio da polso: «Big Ben ha detto stop. Da domani, carissimi telespettatori, mi mancherà un venerdì». Poco dopo, riunito a tavola con tutti i suoi amici e collaboratori, si dimostra una volta tanto piuttosto soddisfatto per la riuscita della trasmissione. Fa e riceve complimenti e ascolta i progetti di ciascuno sulle imminenti vacanze. Un po’ li invidia. Non perché sogni come loro mete esotiche e mondane tipo Maldive o Mauritius (preferirebbe di gran lunga trascorrere qualche settimana di riposo in campagna) ma perché sa che ad attenderlo vi è ancora molto lavoro.

Dopo qualche giorno, formando un’inedita coppia con Pippo Baudo, inizia infatti a registrare al teatro Eliseo di Roma le nove serate di Italia parla: la risposta di Retequattro (che si avvale per l’occasione della consulenza di Steve Curling, un esperto americano di talk-show) all’imbalsamata Tribuna Politica condotta in Rai da Jader Jacobelli. La formula ideata dal direttore dei programmi Carlo Gregoretti è per l’epoca decisamente innovativa: davanti al pubblico in platea, i due presentatori – coadiuvati da due gemelle triestine, capostipiti delle attuali «microfonine» – interrogano direttamente un leader politico seduto su una poltrona stile Luigi XV e mediano le domande postegli da un campione rappresentativo di venti elettori selezionato dalla redazione. «Il nostro compito», spiega Tortora ai giornalisti, «è quello di schierarci dalla parte del cittadino per aiutarlo nel difficile impatto con i professionisti della politica, per convogliare il dialogo su ritmi agili e temi di interesse generale.»

Le prime puntate registrate hanno come protagonisti Ciriaco De Mita (farà notizia il suo rifiuto di sedersi sulla poltrona per andarsi ad accucciare sui gradini del palcoscenico), Enrico Berlinguer, Pietro Longo, Pietro Ingrao e Marco Pannella. Il 16 giugno 1983 Tortora trascorre l’intera giornata a lavorare con lo staff della trasmissione, al quale ha comunicato nel frattempo la decisione di prolungare per un altro anno ancora la vita di Portobello: l’indomani, accompagnato da sua sorella e da Angelo Citterio, che lo stanno raggiungendo in aereo da Milano, si recherà infatti nella sede della Rai per firmare il contratto per la settima edizione del programma.

La serata la trascorre insieme a Vittorio Giovanelli, il direttore di produzione di Retequattro, cenando in un ristorante poco distante dal Plaza, l’albergo dove scende da anni quando si trova nella capitale. Anche stavolta sceglie un menu decisamente meno brillante della sua conversazione: vegetariano ormai da sei anni, il suo rigoroso regime dietetico contempla solo acqua minerale, verdure cotte e poco altro. Al momento di chiedere il conto prenota un tavolo anche per l’indomani. Il proprietario gli propone allora di saldare tutto in un’unica soluzione. Tortora non pagherà mai quell’ultima cena. Quando, intorno alla mezzanotte, si addormenta nella sua stanza al Plaza, non può immaginare che un conto ben più salato sta per essergli presentato.

 *****

Venticinque anni fa, alle quattro e un quarto del mattino del 17 giugno 1983, bussano alla porta di una camera dell’Hotel Plaza di Roma. Spalancato l’armadio, aperta una valigia, sequestrata un ‘agenda telefonica, guardato dentro ai calzini e spaccato un salvadanaio di ceramica a forma di porcellino (non si sa mai) si portano via un uomo stralunato, che ha appena avuto il tempo di vestirsi e di raccogliere pochi effetti personali in una sacca di tela rossa. Quando scendono con l’ascensore nella hall deserta il portiere di notte ha appena il tempo di mormorare – dietro al banco, la testa bassa – un “Mi dispiace” all’uomo che, come in trance, cammina in mezzo ai quattro carabinieri in borghese. Fuori è buio. In via del Corso non passa nessuno. La prua dell’Alfetta punta decisa su via In Selci, sede del nucleo operativo dei carabinieri. Condotto in ufficio, l’uomo viene fatto sedere davanti a una scrivania ingombra di incartamenti. “Lei è in stato d ‘arresto.” “Come?” “C’è un ordine d ‘arresto dalla procura di Napoli.” “Ma per cosa??” “Non lo sappiamo.” Un collasso, le mani e le gambe che si fanno di ghiaccio. Quindi la ricerca di un avvocato e una telefonata alla figlia Silvia: “Ricordati che papà è quello di sempre”. L’angoscia si raggruma in una lunga, incomprensibile attesa. I militari hanno l’ordine di aspettare mezzogiorno per tradurlo nel carcere di Regina Coeli, nessuna fretta deve compromettere la riuscita di una regia studiata da tempo. Il cellulare è stato posteggiato dall’altra parte della strada per meglio consentire a teleoperatori e fotografi di vivisezionare in tutta calma il volto del prigioniero, zoomando sulle manette che stringeranno i suoi polsi. Il tempo sgocciola. All’uomo vengono prese le impronte digitali e scattate le foto di rito: faccia e profilo. La faccia e il profilo di Enzo Tortora.

Camorrista ad honorem

«Non siamo pazzi, non vogliamo essere screditati a vita.» LUCIO DI PIETRO E FELICE DI PERSIA, Corriere della Sera, 20 giugno 1983

Venerdì nero della camorra, Retata del secolo. Verrà definito in molti modi il maxi-blitz ordinato dai sostituti procuratori Lucio Di Pietro e Felice Di Persia a nove giorni dalle elezioni politiche del 26 giugno 1983. Un’operazione di polizia senza precedenti, imponente per dimensioni e clamore: ottocentocinquantasei mandati di cattura. Come ci spiega su Il Giorno un entusiasta Guglielmo Zucconi, il lavoro dei magistrati «è costato e ha prodotto migliaia di cartelle dattiloscritte, decine di migliaia di intercettazioni telefoniche, cinque mesi di pedinamenti e di appostamenti in tutta Italia, di interrogatori in tutte le carceri italiane. Per giungere a tanto sono stati impiegati per mesi ottomila uomini». Il clamoroso arresto notturno di Tortora e di centinaia di presunti altri camorristi prova che «non è vero che in questo paese non cambia nulla, non è vero che le leggi o sono sbagliate o se sono giuste non vengono applicate, non è vero che esistono gli intoccabili».

A fondamento dell’inchiesta vi sono invece solo le parole di due superpentiti della Nuova camorra organizzata (Nco): Giovanni Pandico e Pasquale Barra. Il primo è in carcere dal giugno 1970 in seguito a una strage compiuta negli uffici del comune di Liveri di Nola, suo paese di origine: ha ucciso due persone (ferendone una terza), innervosito dalla lentezza di un impiegato nel rilasciargli un duplicato dell’atto di nascita. È pregiudicato per calunnia, tentato parricidio, tentato incendio dell’abitazione dei genitori, minacce a mano armata contro il padre, tentato avvelenamento della madre e della fidanzata quattordicenne. Le cartelle cliniche dei manicomi giudiziari lo definiscono «paranoico, schizoide, dotato di una personalità aggressiva fortemente condizionata da mania di protagonismo». Nel carcere di Ascoli Piceno diventa il «segretario» di Cutolo. Ai giudici ha dichiarato di essersi dissociato dalla Nco per motivi ideologici. Una settimana dopo il suo primo interrogatorio ha fornito un elenco di nomi in cui – al sessantesimo posto – compare anche quello di Tortora, «camorrista ad honorem».

Pasquale Barra, detto «’O animale» per l’efferatezza dei suoi delitti, è invece un killer delle carceri: ha già trucidato due detenuti quando, nel 1981, nel penitenziario sardo di Bad’e Carros, ammazza (divorandone in seguito le viscere ancora calde) il boss della mala milanese Francis Turatello. L’ordine gli è stato impartito da Cutolo ma – in seguito alle proteste di alcuni boss mafiosi di cui la vittima era figlioccio – don Raffaele gli ha addossato la responsabilità dell’omicidio. Sentendosi minacciato e tradito, Barra si è quindi dissociato. Ha fatto il nome di Tortora solo al quattordicesimo interrogatorio, dopo aver letto l’elenco redatto da Pandico.

Sostiene che Turatello, conosciuto il presentatore cinque, sei anni prima in un night club milanese (grazie a una misteriosa ex entraineuse amica di entrambi),3 lo abbia a sua volta presentato a Raffaele Cutolo. Per aiutarlo a risollevarsi economicamente dopo l’allontanamento dalla Rai, il boss della Nco gli avrebbe proposto di sfruttare le sue conoscenze nel mondo dello spettacolo per piazzare alcune partite di eroina e cocaina. Non solo. Lo avrebbe anche sottoposto al «patto di sangue», il rituale di iniziazione della camorra. Tortora avrebbe accettato la proposta in cambio di 80 milioni di lire a botta e questa fruttuosa collaborazione sarebbe durata fino al 1982, tanto che il presentatore si sarebbe pure recato a Ottaviano in compagnia di un egiziano, tale Hussein, per incontrare la sorella del suo nuovo datore di lavoro.

Solo che a un certo punto, in occasione di un suo viaggio in Svizzera, avrebbe fatto una «cresta» di 46 milioni sulla somma ricavata dalla vendita di una partita di cocaina con il pretesto di essere stato costretto a smerciarla sottocosto. Saputo dello sgarro, i camorristi capizona dell’agro nocerino-sarnese avrebbero condannato a morte Tortora. Sentenza rientrata solo grazie all’intervento dello stesso Cutolo: «Enzo è uomo mio. E poi è troppo amato dalla gente. Se l’uccidiamo avremo tutti contro», avrebbe fatto sapere dal carcere. È grazie a rivelazioni così attendibili e circostanziate che «’O animale» ha saputo guadagnarsi la fiducia della magistratura. Rivela su La Notte Massimo Esposti: «Gli inquirenti lo hanno definito un vero cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamenti. Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione luoghi, dati, personaggi senza mai sbagliare. Ovviamente all’inizio gli investigatori lo hanno messo alla prova per verificare la veridicità di quanto stava raccontando, ma il Barra non ha sbagliato una virgola». Gli fa eco su Il Giorno Paolo Bonaiuti: «Barra diceva qualcosa? Subito si controllava, nei minimi dettagli. Ma non c’è stato verso di coglierlo in errore». E nel tentativo di rassicurare gli ultimi scettici, Alfredo Passarelli riesce a scrivere su Il Tempo che «è facile dire che non abbia più niente da perdere. Intanto c’è qualche dubbio che l’ex uomo di coltello, braccio armato di ‘don Raffaele’, abbia partecipato materialmente all’esecuzione avvenuta in carcere di Francis Turatello, e poi egli ha dimostrato di essere un ‘dissociato’ convinto, consapevole che la Nuova camorra organizzata aveva tradito i suoi principi. Lui tutto sommato potrebbe essere considerato un passionale, e quindi il suo atteggiamento di rivolta in linea con la propria personalità».

Si saprà in seguito che Barra, detenuto nella caserma Pastrengo di Napoli, è stato trattato con ogni riguardo. Sorseggiando coppe di champagne, ha proceduto coscienzioso – con un inappellabile «Chiste sì, chille no» – al riconoscimento delle persone che i carabinieri gli hanno via via presentato. In attesa del «verdetto», alcune di queste sono state colte da malore. «Qualche mancato riconoscimento c’è stato», annoterà Paolo Gambescia su Il Messaggero, «ma gli inquirenti sostengono che si è trattato per lo più di un ‘favore’ fatto dai pentiti a qualcuno che hanno voluto lasciare fuori. ‘È come quando si taglia una forma di parmigiano: nel conto bisogna mettere anche lo sfrido’.»

In un comunicato dai toni trionfalistici (vi è scritto tra l’altro che «in moltissimi casi si è pervenuto addirittura all’acquisizione di inoppugnabili prove documentali») il procuratore capo della Repubblica di Napoli Francesco Cedrangolo ringrazia non solo carabinieri, poliziotti e finanzieri ma anche «tutte le forze politiche e di governo nazionale e locale che hanno in tutti i modi dimostrato, offrendo ogni forma di collaborazione nonostante [sic] l’imminenza delle consultazioni elettorali, il loro più sicuro desiderio di chiarezza e di inflessibile lotta contro le forme di delinquenza organizzata». E per convincere la sbalordita opinione pubblica, dichiara: «Non abbiamo l’abitudine di emettere ordini di cattura senza motivo. Tutte le informazioni raccolte sono state sottoposte in questi mesi a controlli accurati».

I demiurghi del rastrellamento che ha finalmente decapitato la camorra diventano subito i beniamini della stampa. Sui giornali proliferano notizie, indiscrezioni, gli stessi verbali degli interrogatori. Di Pietro e Di Persia? «Scrupolosi, seri, prudenti, stimati, che hanno risolto casi e inchieste difficili», li descrive Gigi Moncalvo su Il Giorno. «Esemplari per zelo e disprezzo del rischio ascoltano, registrano, controllano e agiscono poi di conseguenza», aggiunge Luigi Firpo sul Corriere della Sera. «Meritano un convinto elogio per la silenziosa opera preparatoria, il coraggio e l’efficienza», insiste Mario Sandulli su Il Tempo. «Molto esperti e molto avveduti», ribadisce Guido Guidi su il Giornale. «Il massimo riserbo sembra dettato più dalla volontà di evitare strumentalizzazioni pre-elettorali che non dalla necessità di trovare altre prove, certe e sicure», assicura Massimo Esposti su La Notte.

I due magistrati sanno bene che la cattura di Tortora è ormai la cartina di tornasole della loro serietà professionale, per questo intendono rassicurare l’opinione pubblica: «Non potevamo avere occhi di riguardo, la notorietà non significa impunità per nessuno»; «non siamo pazzi, non vogliamo essere screditati a vita»; «il racconto di Pasquale Barra è stato accuratamente verificato. Non siamo disposti a compromettere una carriera per un provvedimento emesso con troppa leggerezza»; «indubbiamente la presenza di Tortora in questa indagine ha sorpreso tutti e anche noi. Su Tortora siamo andati molto cauti, ma ora possiamo affermare che abbiamo molto più delle testimonianze dei due pentiti».

Qualunque cosa sia, non sembra granché se quattro mesi dopo lo stesso Di Pietro così risponderà a Giampaolo Pansa che gli contesta la credibilità di un’inchiesta basata esclusivamente sulle affermazioni di due pentiti: «Ci abbiamo pensato. Ma l’ipotesi non regge dal punto di vista logico: Barra e Pandico ci hanno consentito di arrestare centinaia di persone che non sarebbero mai state neppure sospettate. Alcune di queste stanno in carcere per reati da ergastolo. Pensi quale catena di drammi, di rancori, di vendette ha origine da quelle confessioni. Quei due sono dei condannati a morte dalla camorra. E avrebbero detto tutto ciò che han detto solo per screditare i giudici? No, non sta in piedi. E c’è dell’altro. Con quei verbali il collega Di Persia, io, la polizia e i carabinieri abbiamo lavorato per quattro-cinque mesi. A fare cosa? A identificare le persone nominate dai pentiti, a cercare ogni riscontro, a far rilievi fotografici, a rileggere centinaia di vecchie indagini di polizia giudiziaria rimaste senza sviluppo. Così, controllo dopo controllo, è affiorata la scoperta più sconvolgente; la camorra non era costituita dal killer, dall’estorsore, dal rapinatore, ma anche da soggetti che appartengono a categorie e professioni di solito insospettabili. Certo, ciascuno con compiti diversi, ma sempre all’interno della stessa organizzazione criminale».

La realtà è invece molto diversa. I due giudici hanno a tal punto operato «così meticolosamente e brillantemente» che centoquarantaquattro arrestati risulteranno omonimi di presunti camorristi o indicati «per sbaglio» dai pentiti. Altri settantadue sospetti saranno prosciolti in istruttoria, molti mesi dopo. Dettagli, fastidiosi impacci al lavoro degli inquirenti che, lamenta Adriano Baglivo sul Corriere della Sera, «devono combattere pure le omonimie e qualche intreccio dai risvolti pirandelliani». «Un sacrificio pagato sull’altare della possibilità statistica», chiosa su la Repubblica il cinico Luca Villoresi.

«Ma questo televisore, chi ci porta in casa?»

Tortora viene intanto lasciato a macerare nell’abisso di un’impotente disperazione. Continua inebetito a pensare all’assurdità di quanto gli è capitato nelle ultime ore: l’irruzione notturna dei carabinieri nella sua stanza all’Hotel Plaza, la veloce perquisizione del mobilio e dei suoi effetti personali, l’accompagnamento forzato nella hall deserta, il viaggio in stato di trance a bordo dell’Alfetta dei militari verso la caserma di via In Selci. Gli è stato riferito che il suo mandato di cattura (senza firma e senza data) parla nientemeno che di associazione a delinquere di stampo camorristico. Non riescono a calmarlo né l’arrivo trafelato della sorella Anna e di Angelo Citterio né la telefonata all’amico Raffaele Della Valle (un giovane avvocato conosciuto anni prima nella sede milanese del Pli, durante un dibattito sulla recente approvazione del decreto Cossiga in materia di terrorismo) né tanto meno i singhiozzi dall’altra parte del filo della moglie Miranda e di sua figlia Silvia, già informate dell’accaduto dal giornale radio. Il cardiologo di fiducia, il professor Pierluigi Guidotti, lo trova in preda a una crisi ipertensiva con alterazione del ritmo cardiaco e ne chiede l’immediato trasferimento in un centro di terapia intensiva.

Non si può, almeno non ancora. Gli ordini sono stati chiari: Tortora deve lasciare la caserma dei carabinieri solo dopo l’arrivo di giornalisti, fotografi e curiosi. È allora che i militari lo conducono, le manette ben strette ai polsi («Voglio tenerle bene alte. Che si vedano. Che vedano l’infamia!» esclama), alla gazzella che lo trasporterà al carcere di Regina Coeli. Per costringerlo a un’indecorosa passerella di cinquanta metri, la macchina è stata fatta posteggiare sul lato opposto della strada. Il presentatore viene così travolto da flash, telecamere, insulti e qualche sputo. «Ladro!», «Farabutto!», «Ipocrita che non sei altro!», «Faccia di merda!» E invece dovrebbero dargli del coglione, è quello che si merita. La notizia del suo arresto era infatti già stata annunciata alle sedici e venticinque del giorno prima da un flash dell’Ansa. Raggiunto al telefono da imbarazzati cronisti mentre negli uffici di Retequattro, in via Lucrezio Caro, stava preparando le puntate di Italia parla con Giorgio Almirante e Mario Capanna, aveva risposto divertito: «Un caro saluto da Rebibbia. Eh sì, lo ammetto, hanno proceduto per ordine alfabetico: Tognazzi, Tortora, Vianello…» E giù una risata. La procura di Napoli aveva custodito così bene il segreto istruttorio da trasformare l’imminente retata anticamorra nel classico segreto di Pulcinella. D’altronde, stando alle solite indiscrezioni, il blitz era stato rinviato di una settimana per motivi logistici, il numero degli arrestandi essendo così ingente da necessitare lo svuotamento preventivo del carcere di Poggioreale. L’imprevisto prologo dell’arresto del presidente dell’Avellino Antonio Sibilia – avvenuto con un giorno d’anticipo nell’Hotel Gallia di Milano, tradizionale sede del calcio mercato – aveva poi ulteriormente attenuato l’effetto sorpresa. «Ci sono nomi grossi, c’è gente insospettabile, anche se chiacchierata. E questa è una voce che il tam-tam che collega tutti i giornali aveva cominciato a diffondere già un paio di giorni fa», ammette Giuliano Gallo su Il Giorno. Solo Il Mattino, ottimamente introdotto negli ambienti della procura di Napoli, la mattina del 17 giugno ha già potuto titolare su sette colonne, in prima pagina: «Blitz anticamorra: c’è anche Tortora».

Il clima di entusiastica celebrazione non impedisce a qualcuno di ricordare che l’ebbrezza per una caccia all’uomo ben riuscita mal si concilia con i princìpi del garantismo. È il caso di Gianni Riotta, che su il manifesto si chiede se il maxi-blitz rappresenti davvero un decisivo colpo inferto alla malavita organizzata: «Difficile dare oggi una risposta libera da dubbi, con mandati di cattura appena sfogliati dai difensori, senza interrogatori. Ma balzano subito in mente alcuni dati di giudizio che i prossimi giorni potranno confermare o far cadere. Colpisce, sgomenta e crea interrogativi l’ampiezza dell’operazione, la sua spettacolarità, la sua estensione. È un nuovo episodio di battaglia giudiziaria a colpi di scoop da procura della Repubblica (che cade per di più a una settimana dal voto)? Se questa ipotesi fosse confermata sarebbe davvero grave. Una botta dura alla credibilità della lotta antimafia». Parole profetiche. Sulla preda eccellente caduta nel carniere della giustizia spende parole inequivoche anche Massimo Fini, che su Il Giorno sostiene – per primo – di trovare assurde le accuse rivolte contro il presentatore.

Assurde non perché Tortora è un uomo ricco e famoso ma perché il suo carattere, il suo gusto all’indipendenza, manifestato più volte e pagato assai duramente nel passato, il suo non conformismo nei difficili anni Settanta quando quasi tutti gli uomini del suo mondo strizzavano l’occhio a sinistra, la sua attitudine d’uomo solitario e anche un po’ sprezzante sono l’esatto contrario degli istinti che possono spingere una persona ad affiliarsi a un’organizzazione come la camorra dove uno, in cambio di protezione, rinuncia alla propria indipendenza, a se stesso, alla propria anima. Man mano che vengono fuori le indiscrezioni divento sempre più incredulo. E sono preso da sgomento. Perché, a questo punto, non so più se sperare che Tortora sia innocente o colpevole. Perché se è colpevole si tratta di un doloroso e clamoroso caso di dottor Jekyll e mister Hyde e questo non incoraggerà certo la nostra fiducia negli uomini ma la cosa, in un certo senso, finirà lì. Ma se è innocente le conseguenze sono gravissime. Perché vuol dire che la «cultura del pentitismo» ha fatto veramente dei grandissimi danni nel nostro Paese, vuol dire che è vero che basta che un mascalzone, purché mascalzone, tiri in ballo il nome di un onest’uomo perché questi finisca in galera. Ma soprattutto, se Tortora dovesse risultare innocente la cosa avrebbe un effetto boomerang, terribile, destabilizzante sull’intera magistratura, la cui credibilità, data proprio dalla popolarità del presentatore, crollerebbe a livelli bassissimi presso la «gente comune». E tutto ciò non potrebbe che favorire i delinquenti veri.

A questi guasti aggiungo lo scempio che, comunque vadano a finire le cose, è già stato compiuto sulla persona del presentatore. All’arresto spettacolare e al carcere Tortora ha reagito infatti come normalmente reagisce una persona innocente: ne è stato letteralmente sconvolto e distrutto. Ha già lasciato sul campo la sua salute e anni di vita. E una carriera che, chiunque sia veramente Tortora, è stata costruita con la fatica, col lavoro instancabile, con una capacità professionale indiscutibile. E in qualche commento apparso in questi giorni sulla stampa mi è parso di leggere tra le righe la piccina soddisfazione di far pagare in un colpo solo a Enzo Tortora il suo lavoro, la sua popolarità, il suo successo, la sua indipendenza. È la vocazione al linciaggio che appare puntualmente, forse inevitabilmente, in storie come questa e per la quale io provo una repulsione profonda.

Contro quest’uomo, torrenziali, si scatenano infatti il livore e l’invidia di molti suoi colleghi. Ex colleghi, anzi, dal momento che l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha provveduto a sospenderlo dall’Albo. Alcuni inventano di sana pianta. Il Giorno (che a lungo intesterà le paginate dedicate al blitz con un disegno raffigurante insieme Tortora e Cutolo) titola «A Milano lo stavano pedinando da cinque mesi». E mentre è ancora detenuto in isolamento Il Messaggero spara in prima pagina lo scoop dell’inviato Paolo Gambescia: «Tortora ammette solo: vidi Turatello». Su La Stampa Giuseppe Zaccaria fa invece esclamare a Barra, appena descritto come un detenuto isolato da mesi in un carcere superprotetto: «Portatelo di fronte a me: saprò io cosa dirgli». Da più parti si riferisce inoltre della vociferata esistenza di una o più lettere scritte dal presentatore a Cutolo nonché di incontri tra i due, avvenuti quando il boss era latitante e ben protetto. Ad arricchire quello che su La Notte Antonio Esposito definisce il «solido castello delle accuse» si aggiunge anche un’agendina rinvenuta addosso al cadavere del luogotenente della Nco Vincenzo Casillo (vittima di un attentato dinamitardo) e contenente, così si afferma, i recapiti telefonici di Tortora. Un anonimo ufficiale dei carabinieri, «un personaggio che sa», si confida poi con il cronista de Il Giorno Gigi Moncalvo. Sostiene che alla base del clamoroso arresto «c’è ben più di qualche convincimento. Ci sono prove e fatti incontrovertibili. Se i magistrati avessero avuto anche un solo dubbio su Tortora voi pensate che avrebbero deciso lo stesso di correre il rischio di fare una brutta figura così gigantesca e leggendaria?» I guai del presentatore sarebbero nati dopo la sua cacciata dalla Rai: «In quel periodo così difficile per lui è nato un qualche cosa che forse non è stato nemmeno cercato, ma che si è innestato in quel suo particolare momento. Non dimentichiamo anche il particolare carattere di Tortora, le sue continue nevrosi, le sue manie di persecuzione, qualche volta anche qualche suo complesso». Ma la droga, gli viene chiesto, si limitava a consumarla? «Uso personale? E come faceva a mangiarsela tutto da solo?» è la risposta ironica del misterioso interlocutore, definito nientemeno che «un alto personaggio che conosce molti risvolti dell’inchiesta».

In queste prime ore in tanti, in troppi si divertono nel fare a pezzi l’immagine personale e pubblica del divo di Portobello. Non resta che rovesciare la pattumiera di quei giorni e dare un’occhiata ad alcuni reperti di giornalismo antropofago.

«L’eroe televisivo Enzo Tortora rivela una calma addirittura sospetta al momento dell’arresto. Le labbra mosse con flemma, i muscoli del collo e della faccia tirati e la voce compassata sembrano voler ricordare e riprodurre a tutti i costi il personaggio del piccolo schermo, amato dalle massaie. Alla mia richiesta di un pensiero da rivolgere a tutti coloro che lo conoscono e che intimamente suggestionati dal caldo e avvolgente messaggio televisivo quasi si vergognano già di avergli voluto bene, Enzo Tortora non ha avuto esitazioni: ‘Dovete credermi. E voi colleghi giornalisti italiani dovrete seguire con molta, molta attenzione tutta la vicenda’. Una frase del genere, un attimo prima di entrare nella macchina che punta su Regina Coeli si può prestare a più di una interpretazione. Molto meglio seguire le prime sensazioni, quelle istintive, ma non per questo meno valide. Che Enzo Tortora abbia voluto lanciare un messaggio? Può forse aver voluto dimostrare di sentirsi sicuro e di avere le spalle ben protette?» (Marino Collacciani, Il Tempo)

«Dosando con grande mestiere indignazione e sbigottimento ha retto bene la parte della vittima innocente.» (Wladimiro Greco, Il Giorno)

«Il suo arresto conferma quello che chiare indicazioni davano già per sicuro, e cioè che Tortora è un personaggio dalle mille contraddizioni. Ligure spendaccione, se non proprio generoso, giornalista e quindi osservatore ma al tempo stesso attore e portato all’esibizione, umorale e tuttavia al servizio del più rigoroso raziocinio, colto (come ama anche ostentare in tv) eppure votato alle opere di facile popolarità, incline a un’affettazione non lontana dall’effeminatezza ma notoriamente amato dalle donne e propenso ad amare le più belle (due mogli e falangi di amiche). Moralista infine – proprio questo il sigillo che l’arresto imprime alla sua sfaccettata personalità – e ora colpito da un’accusa che fa di colpo traballare ogni sua credibilità morale.» (Luciano Visintin, Corriere della Sera)

«Desta qualche sospetto quando fa di tutto per nascondere la sua vita privata, quando conduce sotto l’insegna dell’ordine una vita personale tutt’altro che ordinata assumendo nello stesso tempo atteggiamenti da moralista o da Catone il Censore. I moralisti o i moralizzatori sono sempre da salutare con favore, specialmente in tempi come quelli che viviamo, ma a condizione che non bistrattino con l’azione i loro principi, che conducano una vita irreprensibile.» (Costanzo Costantini, Il Messaggero)

«Povero Enzo Tortora, chissà quale debolezza di un momento l’ha trascinato in questo gorgo.» (Tommaso Giglio, Il Secolo XIX)

«Qualcuno a Milano dice che quando era stato licenziato dalla Rai lo si poteva vedere, di notte, in un giro di balordi. Qualcun altro si meravigliava di averlo incontrato spesso, anche in questi ultimi tempi, sugli aerei Roma-Palermo, Palermo-Roma. Che interessi poteva avere Tortora in Sicilia? A Napoli i giudici Di Pietro e Di Persia, due persone che non agiscono certo per farsi pubblicità, sembrano molto sicuri di sé, dichiarano di avere in mano parecchie prove. E poi, per chi lo conosce bene, c’è un altro elemento inquietante: Tortora, di solito violento a parole nel difendersi e così conscio del potere dei giornali e della tv, quando è uscito dalla questura di Roma aveva a sua disposizione televisione e giornalisti: poteva dire quello che voleva; invece, a parte generiche dichiarazioni di innocenza, non ha avuto le reazioni che gli erano solite.» (Alessia Donati, Novella Duemila)

«Tortora non può, non deve diventare un simbolo. Egli è solo uno dei tanti, tantissimi pessimi esempi dell’italiano che, sotto la lacrimuccia televisiva, nasconde il suo ardore per il danaro: e quindi è disponibile a tutto. Impossibilitato, però, a rimanere di continuo travolto nel casto mantello della sua menzogna: e questo non può che rallegrarci, e smorzare in noi la paura che il genio del sospetto diventi una mitologia permanente, un veleno senza antidoti: come dimostra il gioco delle manette che sono scattate l’altra notte, a Roma, intorno ai polsi di Tortora. Pronuncio quasi con angoscia questa parola, manette, perché, in passato, io sono stato amico di lui.» (Luigi Compagnone, Il Secolo XIX)

Anche perché lo spaccio operato da Tortora non consisteva certo in «stecchette o bustine, ma in partite di 80 milioni a botta. Un’attività durata anni e stroncata solo ultimamente, secondo indiscrezioni, per uno sgarro commesso dal noto presentatore. E ancora, pranzi e cene con noti e meno noti camorristi, incontri segreti, rapporti, inchieste, raccomandazioni, suggerimenti, appalti» (Daniele Mastrogiacomo, la Repubblica).

Ci accorgiamo insomma, «con sofferenza, che abbiamo avuto per ospite abituale un uomo di cui – in definitiva – ignoriamo storia, pensieri, antefatti, parentesi e risvolti. Ingenuo o colpevole? Buio pesto. Si fa strada una nuova diffidenza: ma questo televisore, chi ci porta in casa?» (Giorgio Torelli, il Giornale).

Anche alcune prime firme del giornalismo prendono parte alla corrida. Una pietra al collo alla presunzione di innocenza l’annoda per esempio Camilla Cederna su La Domenica del Corriere:

Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto. E non mi piaceva il suo Portobello: mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che parlava troppo, senza mai dare tempo agli altri di esprimere le loro opinioni. Non mi piaceva neppure il modo con cui trattava gli umili: questo portare alla ribalta per un minuto la gente e servirsene per il suo successo personale era un po’ truffarla. Il successo ottenuto così si paga. Non dico che tutti quelli che hanno un successo di questo genere finiranno così, ma lui lo sta pagando in questo modo. Non ho per ora elementi per dire di più.

E ancora: «L’ostentazione del perbenismo corre sempre sul filo dell’ipocrisia. Né penso che Tortora credesse fino in fondo nel suo malinconico barnum del venerdì sera» (Giulio Nascimbeni, Corriere della Sera). «Tempi duri, tempi durissimi per gli strappalacrime»(Giovanni Arpino, il Giornale). «Sveglia, signora Italia. Lei non ha pianto quando hanno arrestato i generali della Finanza, gente che aveva giurato fedeltà alla Costituzione. Lei non ha battuto ciglio quando hanno incriminato decine di pubblici amministratori, personale eletto dal popolo e sospettato di aver tradito la sua fiducia. E adesso lei piange per un divo della Tv. Non faccia la stupida, signora mia, la sua delusione è inopportuna: un uomo di spettacolo non è pagato per essere onesto» (Giuliano Zincone, L’Europeo). «Alla colpevolezza di Tortora ci credono quelli che fanno i magistrati a Napoli, che sanno le cose. Il capovolgimento dell’immagine tra il presentatore disinvolto, ben vestito, manierato, e il tipo smarrito con i ferri ai polsi in mezzo ai carabinieri, è troppo repentino, troppo forte? Un componente della nostra sterminata telefamiglia è, prima ancora che una celebrità, una persona di casa, un parente: la stupefatta incapacità di pensarlo colpevole è magari anche il rifiuto di riconoscersi ingannati e presi in giro, oltre che da tanti, pure da Enzo Tortora, perfino da Portobello» (Lietta Tornabuoni, La Stampa). «Le accuse secondo le quali Enzo Tortora sarebbe implicato nel grande affaire della camorra sono ancora tutte da provare: ma gli inquirenti hanno la convinzione che egli sia caduto nella rete: naturalmente, rete quattro» («Controcorrente», di Indro Montanelli, il Giornale).

Non mancano – potevano mancare? – le vignette: tra le tante, quella di Giorgio Forattini che disegna il pappagallo di Portobello rinchiuso in gabbia che esclama «Portolongone!!!», quella di Bucchi che ritrae Tortora dietro le sbarre mentre commenta avvilito: «Eppure il pappagallo non ha parlato», e quella dei fratelli Origone che immaginano un pimpante Mike Bongiorno che va a trovarlo in cella salutandolo con il consueto: «Allegriaaa!»

Il tribunale del rigetto

Di queste facezie l’interessato è per il momento all’oscuro. Al secondo piano di Regina Coeli, nel reparto pomposamente denominato Centro di medicina intensiva, di intensivo c’è solo la mancanza di assistenza. Il presentatore non ha voluto niente, solo un bicchiere d’acqua. Le prime ore passate in carcere sono scandite dall’insopportabile clangore di chiavi e chiavistelli che aprono e richiudono le porte di ferro. Nella cella 16bis dell’infermeria trova altri sei ricoverati, tutti in attesa di giudizio. Sono a torso nudo e in costume da bagno, si sventolano con dei pezzi di cartone da imballaggio e lo accolgono con un rispetto umano misto a pudore. Il più giovane gli indica una branda vicino all’ingresso. Tortora vi si butta sopra, frastornato. Non si accorge nemmeno che un altro ha iniziato a pelare una pesca usando per coltello il coperchio tagliente di una scatoletta di tonno. Dopo aver versato le fette in un bicchiere di plastica, glielo porge: «Dai, mangia qualcosa e stai tranquillo». Lui prova a masticare ma lo stomaco è troppo chiuso per la tensione. Gli è cascato il mondo addosso, improvvisamente e senza alcun motivo. Sa solo di trovarsi in un locale lungo e stretto che prende luce da un finestrone protetto da un’inferriata. L’arredamento è spartano: un tavolo di formica al centro, alcune radioline portatili appese alle pareti celesti, un fornello alimentato da una bombola color rosso con una piccola batteria da cucina, una lampada accesa. Una porta immette in un angusto gabinetto. C’è anche un piccolo televisore in bianco e nero che durante il giorno viene disputato dagli altri detenuti.

La sera, Tortora fissa stralunato i telegiornali che continuano a vomitare notizie sul suo clamoroso arresto. Sente per la prima volta i nomi di Pandico e Barra. Apprende che esistono «prove schiaccianti» sul suo conto, che è stato «definitivamente incastrato». I suoi compagni osservano muti le immagini sullo schermo. Del resto, cosa c’è da dire? Si limitano a scrutare le sue reazioni, quindi parlottano a voce bassa tra loro.

La prima notte in cella la trascorre sotto l’effetto di un forte sonnifero prescrittogli dal medico dell’infermeria. Il sonno è agitato. Se il corpo è addormentato, la sua mente continua invece ad arrovellarsi senza sosta. L’indomani una guardia gli consegna un telegramma, il primo delle centinaia che stanno per essergli recapitati: «Abbiamo capito. Tu non c’entri assolutamente. Tutta la nostra stima e solidarietà». Quando legge la firma dei sei detenuti, Tortora si mette a piangere. «Fino a qualche giorno prima», osserverà anni dopo, «avevo fatto parte di quella stragrande maggioranza di cittadini che rimuovono freudianamente l’idea del carcere, la considerano un’ipotesi astratta, un’equazione matematica troppo astrusa per rifletterci sopra, un incidente probabile come l’assalto di un elefante nel pieno centro di una città.» L’impensabile è invece accaduto. E dal momento che il pachiderma imbizzarrito della giustizia italiana lo ha travolto, non gli resta che adattarsi il più presto possibile alla nuova realtà nella quale è stato scaraventato.

L’esperienza degli altri detenuti si rivela una bussola fondamentale per potersi orientare nel microcosmo di Regina Coeli. Grazie a loro Tortora apprende velocemente gli orari di distribuzione dei pasti e le modalità di acquisto di beni allo spaccio, i turni doccia e quelli per il cambio delle lenzuola, la procedura burocratica da seguire per poter scrivere un telegramma. Soprattutto impara che nel carcere il tempo non conta (molto meglio dimenticarsi di guardare l’orologio) e che i suoi ospiti forzati convivono tra loro all’insegna del rispetto e della solidarietà. Rifiuta l’ora d’aria, la passeggiata giornaliera che gli spetta di diritto. Preferisce restarsene solo a rimuginare, piuttosto che esporsi alla curiosità e alle domande degli altri detenuti. Pur di trovare il minimo indizio che possa giustificare il suo coinvolgimento nell’inchiesta, trascorre ore e ore a riflettere, analizzare, ricostruire incontri, dati, contatti, volti, perfino le strette di mano alle migliaia di persone conosciute negli anni. Sa solo una cosa: di avere la coscienza a posto. «Appartengo a una generazione e a un mondo che, se appena coscientemente coinvolti, anche in minima parte, in fatti di questo tipo, si sarebbero suicidati. Ma subito, senza attendere i carabinieri», ribadirà orgoglioso.

Nonostante si trovi ancora in isolamento, il 20 giugno gli viene concesso un colloquio con i famigliari. Può così rivedere per mezz’ora la figlia Silvia, la moglie Miranda e il cognato Giampaolo Carrozza. Sua sorella Anna ha invece preferito non essere presente per non restare sopraffatta da un’emotività più forte dell’autocontrollo. L’incontro avviene in parlatorio, uno stanzone sporco e chiassoso, con le cicche sul pavimento e le imprecazioni di qualche detenuto miste agli strilli dei bambini in visita. Così la figlia descriverà sul settimanale Epoca quei lunghi, intensi minuti:

Forse ci diciamo qualcosa, o forse niente. Ringrazio solo chi ha permesso quell’immenso, unico e indimenticabile abbraccio. Mio padre è vestito ancora in jeans e camicia, come quando lo hanno ammanettato. Lo guardo. Non ci sono parole per descrivere un uomo umiliato e offeso. Sono tre giorni che non si cambia, ha freddo. Forse ha dormito vestito. Mi tolgo il golf. Glielo metto. Se potessi, mi leverei la pelle. Alle mie spalle una porta blindata, a destra una grata, dietro la grata un secondino. È giovanissimo, forse ha vent’anni come me. Quando ci vede piangere fa un timido passo indietro. Forse prova qualcosa anche lui. L’angoscia, lo sgomento sono indescrivibili a parole: ricordo le mani sudate, gelide, un groppo continuo alla gola che soffoca le parole. E poi, una grande voglia di scappare. Di uscire via. Ma ci sono sempre le sbarre, e quel maledetto rumore di chiavi a ricordarti dove sei. Le parole, le frasi dette durante il colloquio sembrano poche, mai sufficienti. E sono sempre coperte dalle voci degli altri, di quelli che gridano, piangono o ridono dietro di noi. Quando torna il brigadiere per annunciare la fine del colloquio c’è un grande imbarazzo. Negli occhi di mio padre l’incredulità. Nei miei tanta rabbia. Poi l’ultimo abbraccio. Quello più struggente, che ti porti dentro e dentro per giorni e giorni. Quando esco evito di proposito di vederlo sparire al di là delle sbarre, dietro i cancelli. È una maniera per farsi meno male.

Due giorni dopo il tribunale della libertà di Napoli, presieduto da Tullio Grimaldi, respinge l’istanza di libertà provvisoria avanzata dal suo collegio difensivo (Giuseppe Bucciante, nominato in gran fretta su consiglio di Carlo Gregoretti, è adesso affiancato dai colleghi Raffaele Della Valle e Antonio Coppola). Nel dispositivo della sentenza emessa dal collegio giudicante si legge che «la responsabilità di Enzo Tortora emerge dalle dichiarazioni di due aderenti dell’organizzazione criminale che hanno trovato obiettiva verifica in più documenti sequestrati nei quali si fa riferimento a fatti, persone e circostanze dettagliate». Recentemente istituito, il tribunale della libertà si conferma così come il tribunale del rigetto. Dovrebbe essere un mezzo di controllo immediato della legittimità dell’arresto, invece lavora come una sorta di autorevole avallo ai provvedimenti della magistratura. Giudici che giudicano altri giudici e che in pochi giorni approvano l’ordine di cattura, in segreto e senza contraddittorio delle parti.

 

– Stefano Nazzi, Il giorno in cui condannarono Enzo Tortora