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  • Giovedì 19 luglio 2012

Avere tutto?

Nella settimana in cui una donna incinta veniva messa a capo di Yahoo, Internazionale ha tradotto un articolo su maternità e carriera professionale molto discusso negli Stati Uniti

di Giulia Siviero - @glsiviero

SAN FRANCISCO - SEPTEMBER 08: Google Vice President of Search Product and User Experience Marissa Mayer speaks during an announcement September 8, 2010 in San Francisco, California. Google announced the launch of Google Instant, a faster version of Google search that streams results live as you type your query. (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)
SAN FRANCISCO - SEPTEMBER 08: Google Vice President of Search Product and User Experience Marissa Mayer speaks during an announcement September 8, 2010 in San Francisco, California. Google announced the launch of Google Instant, a faster version of Google search that streams results live as you type your query. (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)

Internazionale ha dedicato la copertina dell’ultimo numero a un articolo uscito sull’Atlantic Monthly sul secolare dibattito della conciliazione tra maternità e lavoro da parte delle donne. L’articolo è scritto da Anne-Marie Slaughter, professoressa di scienze politiche e relazioni internazionali all’università di Princeton e, da gennaio 2009 a febbraio 2011, direttrice della pianificazione delle politiche al dipartimento di stato statunitense (il suo superiore era Hillary Clinton). Slaughter spiega come lei stessa abbia deciso di rinunciare a quest’ultimo e prestigioso incarico perché “avere tutto”, ossia gestire la maternità ed essere anche professioniste affermate, continua a essere praticamente impossibile: almeno oggi, con un’economia e una società strutturate così.

L’articolo sta facendo discutere molto perché la posizione di Anne-Marie Slaughter – che prevede che “avere tutto” comprenda la maternità – metterebbe in discussione una delle conquiste teoriche più importanti del femminismo (madri non si nasce, è una scelta) e perché, di conseguenza, sembrerebbe porre come completamento assoluto della “liberazione” femminile la conquista del mercato del lavoro: possibile però solo ad una minoranza di donne.

Su queste due principali critiche si basa la replica all’articolo di Anne-Marie Slaughter di Laurie Penny (giornalista britannica dell’Indipendent): «Se dovessi inventare un modo per togliere forza al femminismo in quanto movimento socialmente utile ecco che farei: fisserei un ridicolo standard di realizzazione personale e professionale che fosse irraggiungibile per la stragrande maggioranza delle donne non ricche, non bianche e non dell’alta borghesia, e lo chiamerei “avere tutto”. Dopo aver fissato questo standard impossibile, potrei facilmente far sentire delle fallite tutte le donne che non l’hanno raggiunto».

Laurie Penny mette quindi in discussione porre come primo (per essere una donna pienamente realizzata) l’obiettivo stesso al centro dell’articolo di Anne-Marie Slaughter, quello di rendere più semplice la vita lavorativa di una donna che è anche madre e scrive:

«Personalmente, con l’economia nello stato in cui è, non ho il tempo, i soldi né la stabilità di occuparmi di un cane – la cosa che vorrei più di ogni altra – figuriamoci di un partner o di un figlio piccolo. Molte mie amiche sono in una situazione simile, ma almeno abbiamo la libertà di sollevare degli interrogativi. Per esempio: ci è davvero consentito di non volere un marito? Sono ancora una persona valida se non guadagno almeno 50mila sterline all’anno? Si può ancora scegliere di non sposarsi né di avere figli, e investire invece le proprie energie in cose egoistiche come la creatività o i viaggi? Sarà mai una scelta possibile? Verrà mai il tempo in cui per le donne libertà personale significherà la stessa cosa che significa per gli uomini?».

Se qualcosa di vero si trova nell’articolo di Anne-Marie Slaughter, concede Laurie Penny, è proprio la messa in discussione dello stereotipo della donna “che ha tutto contemporaneamente”. Slaughter parte da se stessa raccontando l’esperienza del suo lavoro a Washington, per la Casa Bianca, con giornate che iniziavano alle 4.20 del lunedì mattina e finivano il venerdì sera tardi, piene di riunioni, rapporti e valutazioni da compilare.

Quando le persone mi chiedevano perché avevo lasciato il governo, rispondevo che non solo non volevo perdere il mio posto a Princeton, ma volevo stare con la mia famiglia ed ero arrivata alla conclusione che non è possibile destreggiarsi tra un incarico pubblico di grande responsabilità e le esigenze di due figli adolescenti. (…) Eppure mi scontravo sistematicamente con le reazioni delle donne della mia età o più anziane, che andavano dalla delusione (“È un peccato che tu abbia dovuto lasciare Washington”) alla condiscendenza (“Non trarrei conclusioni generali dalla sua esperienza. Io non ho mai dovuto fare compromessi e i miei figli se la sono cavata benissimo”).

Le reazioni del primo tipo, con il sottinteso che la mia scelta era triste o sfortunata, erano già abbastanza irritanti. Ma quelle del secondo tipo – con la tacita implicazione che il mio ruolo di madre e il mio impegno nella professione erano al di sotto degli standard – mi mandavano su tutte le furie. Poi a un tratto ho avuto un’illuminazione. Per tutta la vita ero stata dall’altra parte della barricata.

Slaughter dice quindi di aver capito come lei stessa ha per molto tempo contribuito a rafforzare una falsità: quella che “avere tutto”, per una donna, è questione di volontà e impegno personali. Un “impegno inadeguato” non può insomma essere una spiegazione sufficiente per giustificare i numeri delle donne che hanno raggiunto posizioni di potere. E coloro che ce l’hanno fatta o sono delle super-donne o sono donne che hanno accettato un modello maschile di lavoro: che prevede la disponibilità totale del tempo ed esclude la cura dei figli («Tutti i giudici maschi della corte suprema hanno una famiglia. Due delle tre giudici donne sono single e senza figli», spiega).

Vi è un secondo passaggio importante nell’analisi di Slaughter che, come lei stessa spiega, ha a che fare con un «terreno insidioso e minato di stereotipi». Dice infatti:

Dopo anni di discussioni e osservazioni mi sono convinta che gli uomini e la donne reagiscono in modo molto diverso quando i problemi familiari li costringono ad ammettere che la loro assenza nuoce a un figlio, o almeno che la loro presenza potrebbe essere d’aiuto. Non credo che i padri amino i figli meno delle madri, ma gli uomini tendono a scegliere il lavoro a scapito della famiglia, mentre le donne tendono a scegliere la famiglia a scapito del lavoro.

Naturalmente questa scelta è condizionata da molti fattori. Gli uomini sono ancora educati a credere che il loro dovere principale nei confronti della famiglia sia di provvedere ai bisogni materiali, le donne sono educate a credere che il loro primo dovere sia la cura. Ma potrebbe esserci dell’altro.

Slaughter fa riferimento a una sorta di “imperativo materno” per cui, in realtà, le donne non avrebbero scelta, ma questa sarebbe per loro (e proprio in quanto donne) “obbligata”. Scelta che potrebbe semplicemente essere resa meno traumatica attraverso un ripensamento dei tempi da parte delle donne stesse (trovare il “momento giusto” per fare dei figli, costruire una carriera non lineare fatta di “gradini irregolari” con soste e “lievi cadute”) e attraverso il superamento della cultura del “tempo macho”, una competizione spietata per uscire dall’ufficio il più tardi possibile. Vanno insomma modificate le regole di base del mondo del lavoro «cioè le aspettative fondamentali su dove, come e quando viene svolta l’attività lavorativa». Qualche esempio:

Poter lavorare a casa – la sera quando i bambini sono andati a letto, quando sono malati o quando nevica, e almeno una parte del tempo durante il fine settimana – può essere la soluzione per fare ugualmente appieno la propria parte senza rinunciare a occuparsi dei figli. Le videoconferenze possono ridurre drasticamente la necessità di lunghi viaggi di lavoro e facilitano l’integrazione tra lavoro e vita familiare.

Nell’analisi si trova infine una terza e fondamentale proposta d’intervento, forse il più radicale e anche il più difficile da compiere: quello di cambiare la percezione che ha il mondo del lavoro nei confronti delle donne che hanno dei figli proprio per riuscire a riportare al centro dell’attività lavorativa di tutti, e non solo delle donne, la vita familiare.

Esaminiamo questa ipotesi: un datore di lavoro ha due dipendenti ugualmente capaci e produttivi. Nel tempo libero, uno si allena e partecipa alle maratone, l’altra si prende cura di due bambini. Che idea si farà del maratoneta il datore di lavoro? Penserà che si alza ogni mattina quando è ancora buio e passa un’ora o due a correre prima di andare in ufficio, e che è pronto ad allenarsi anche dopo una giornata particolarmente lunga. Penserà che si sottopone a una disciplina feroce e che sa combattere le distrazioni, la stanchezza e i giorni in cui tutto sembra andare storto pur di raggiungere un obiettivo lontano. E concluderà che sa gestire alla perfezione il suo tempo.

Siate onesti: credete davvero che il datore di lavoro pensi le stesse cose di una madre? Eppure probabilmente la madre si alza ore prima di andare al lavoro, organizza la giornata dei figli, gli prepara la colazione, i panini per il pranzo, li accompagna a scuola, pianifica la spesa e altre commissioni anche se è tanto fortunata da avere una domestica. (…) La disciplina, la capacità organizzativa e la resistenza fisica necessarie per arrivare ai massimi livelli nel lavoro avendo dei bambini in casa non sono diverse da quelle che servono per correre dai 30 ai 60 chilometri alla settimana. Ma i datori di lavoro non la vedono quasi mai così, non solo quando fanno concessioni, ma anche quando decidono una promozione.

(nella foto Marissa Mayer, CEO di Yahoo; Justin Sullivan/Getty Images)