Gli ultimi 56 giorni di Borsellino: 25 giugno 1992

Dal libro di Enrico Deaglio, la cronologia degli avvenimenti tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio

Il nuovo libro di Enrico Deaglio – Il vile agguato (Feltrinelli) – è dedicato alle indagini sulla strage di via D’Amelio a Palermo in cui fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino assieme a cinque agenti della sua scorta, il 19 luglio 1992. Il libro si conclude con una “succinta cronologia degli ultimi cinquantasei giorni di vita di Paolo Borsellino, compresi avvenimenti che avevano a che fare con lui, ma di cui non era a conoscenza”. Il Post pubblicherà in sequenza, assieme al secondo capitolo del libro, la successione di quegli eventi, a vent’anni di distanza.

Palermo, 25 giugno
Il maggiore Umberto Sinico e il maresciallo Antonio Lombardo si recano nel carcere di Fossombrone per ascoltare Gerolamo D’Anna, capomafia di Terrasini, storico contatto del maresciallo, suo concittadino e capostazione dei carabinieri locali. Questi, che è “in confidenza” con il maresciallo, gli annuncia che “è arrivato il tritolo per Borsellino”. Sinico riferisce immediatamente la notizia al magistrato che così commenta: “Lasciamogli questo spiraglio, almeno lasciano stare la mia famiglia”.
Questa rivelazione è stata fatta nel 2011 nel corso del processo contro il generale Mario Mori e il maggiore Obinu, nel quale Umberto Sinico, oggi colonnello, era testimone per la difesa. Sono state fornite alcune informazioni supplementari. Per esempio che Girolamo D’Anna è un uomo d’onore della vecchia guardia di Cosa nostra, “posato” perché vicino a Tano Badalamenti (caduto in disgrazia dopo l’avvento dei corleonesi), ma ancora di grande carisma e messo al corrente delle decisioni importanti. Si evince quindi che Cosa nostra avviò una vasta consultazione sull’opportunità o meno di uccidere Borsellino, e che D’Anna non si tenne la cosa per sé, anzi mandò a chiamare dal carcere chi poteva impedire l’azione. (Il tutto getta una luce nuova sui rapporti tra stato e mafia, e sul loro funzionamento pratico.) La reazione fatalista di Borsellino, che Sinico apprese con sorpresa dolorosa, viene portata a riprova dell’assoluta fiducia che il giudice aveva nei carabinieri. Con due particolari non spiegati, però: in che cosa consisteva lo spiraglio che il giudice voleva lasciare a Cosa nostra? Voleva forse, in qualche modo, facilitare il suo compito?
E, secondo, se la sua angoscia principale non era la propria morte, ma un attentato contro la sua famiglia, perché non vennero prese, a maggior ragione, iniziative di protezione, a partire dall’elementare istituzione della zona di rimozione in via D’Amelio?

Roma, 25 giugno
Don Vito Ciancimino, mentre tratta con mafiosi e carabinieri, svolge anche attività di pubbliche relazioni. Riceve nella sua dimora romana il giornalista Gianpaolo Pansa cui dà la sua interpretazione dei fatti. La principale è: “Adesso la superprocura non la faranno più. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone è morto”.