Anna Politkovskaja è stata una giornalista e un’attivista per i diritti umani russa. Nel pomeriggio del 7 ottobre 2006, sabato, il giorno del compleanno dell’attuale primo ministro russo Vladimir Putin, venne uccisa con quattro colpi di pistola nell’ascensore del condominio dove abitava, nel centro di Mosca. Stava tornando a casa dopo aver fatto un po’ di spesa. L’omicidio di Anna Politkovskaja, che al momento della sua morte aveva fama internazionale per la sua attività di denuncia dei crimini del governo russo, ebbe un grande risalto in tutto il mondo.
Il libro più celebre della giornalista, La Russia di Putin, è un’ampia inchiesta sul governo di Vladimir Putin, sui problemi sociali ed economici della Russia e sulla gestione del dissenso da parte dei servizi segreti con l’appoggio del governo. In Italia è stato pubblicato da Adelphi. A partire dal 2009 il settimanale Internazionale – che era stata la prima testata italiana a tradurre e pubblicare i suoi articoli – le ha dedicato un premio per “i giovani reporter che nel mondo si sono distinti per le loro inchieste”.
Anna Politkovskaja
Anna Mazepa era figlia di due diplomatici ucraini che lavoravano alle Nazioni Unite. Era nata a New York nel 1958, ma era cresciuta a Mosca, dove si era laureata in giornalismo nel 1980. Durante l’università aveva sposato il compagno di studi Alexander Politkovskij, cambiando il cognome in Politkovskaja. Dopo qualche anno al grande quotidiano Izvestia, che durante l’Unione Sovietica era uno degli organi ufficiali di stampa insieme alla Pravda, la giornalista passò alla piccola stampa indipendente, prima con alla Obshchaja Gazeta e poi al bisettimanale d’inchiesta Novaya Gazeta, dal 1999.
Fin dalla sua fondazione, nel 1993, la Novaya Gazeta era stata critica nei confronti della classe politica della Russia post-sovietica, e aveva pubblicato spesso inchieste su casi di corruzione che coinvolgevano esponenti di primissimo piano del governo (come Sergej Kirienko, primo ministro per sei mesi nel 1998) e dell’economia russi.
La vicenda in cui Politkovskaja lavorò più a fondo, e che le fece guadagnare notorietà anche fuori dal suo paese, fu il conflitto armato in Cecenia e nella vicina Inguscezia (entrambe repubbliche autonome all’interno della Federazione Russa). In realtà non si occupò del primo, che si svolse dal 1994 al 1996, perché all’epoca stava svolgendo indagini su vari temi sociali, come la situazione degli orfanotrofi statali, della popolazione anziana, o dei milioni di rifugiati interni alla federazione.
Fu proprio l’interesse per i rifugiati a portarla in Cecenia quando, alla fine degli anni Novanta, ricominciarono gli scontri violenti e il pesante coinvolgimento dell’esercito russo. Inizialmente era convinta delle buone ragioni della Russia, e della giusta causa di un intervento armato per combattere le forze islamiche indipendentiste della autoproclamata Repubblica di Ichkeria che aveva il controllo del paese. Ma con il suo lavoro sul campo testimoniò in prima persona gli abusi del Servizio di Sicurezza Federale (FSB), i servizi segreti interni continuatori del KGB sovietico, e del GRU, i servizi segreti militari, che avevano il controllo delle operazioni (ufficialmente, infatti, il conflitto ceceno era gestito dalla Russia come un’operazione di antiterrorismo).