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  • Domenica 11 settembre 2011

Falling Man

La storia della foto più famosa e impressionante scattata l'11 settembre 2001: un uomo che precipita in maniera composta, quasi come in un tuffo

(Richard Drew/dapd)
(Richard Drew/dapd)

Questo articolo è stato scritto l’11 settembre 2011.

La storia delle stragi dell’11 settembre è un’immensa storia di immagini, riempita a sua volta di mille storie diverse, entrate nella memoria collettiva in una serie di scatti e dirette e video di quel giorno. E dentro ha le storie delle persone morte quel giorno, molte delle quali si mescolano nel numero complessivo delle vittime, e una delle quali è raccontata in una fotografia divenuta simbolo di un sacco di cose, non solo di quel giorno ma anche dei modi con cui gli americani reagirono a quel giorno.

È la fotografia del “Falling Man”, l’uomo che cade.

La scattò l’11 settembre alle 9 e 41 minuti e 15 secondi Richard Drew, un fotografo dell’agenzia Associated Press che aveva visto passare altri momenti della storia durante la sua carriera. Quando aveva 21 anni si trovava accanto a Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza, nel momento in cui venne ucciso in un albergo di Los Angeles, nel 1968. Il sangue gli finì addosso, e lui scattò le immagini di Kennedy mentre moriva, mentre Ethel Kennedy lo abbracciava e chiedeva ai fotografi di non farlo, di non scattare. La mattina dell’11 settembre Drew era stato mandato al Bryant Park di Manhattan – una cinquantina di isolati a nord del World Trade Center – per fotografare una sfilata di moda premaman: c’era anche una troupe della CNN, e un cameraman ricevette in cuffia la comunicazione che un aereo si era schiantato contro una delle torri gemelle. Subito dopo l’agenzia chiamò Drew e gli disse di andare là. Drew prese la metropolitana che funzionava ancora e scese alla fermata di Chambers Street, da dove sbucò per trovarsi di fronte le due torri avvolte nel fumo: il secondo aereo aveva centrato la torre Sud. La gente guardava in alto e urlava: si vedevano persone saltare giù dalle torri.
Drew cominciò a scattare.
In quei momenti un aereo centrava il Pentagono. Dopo poco la torre Sud crollò, seguita dalla Nord: Drew, scattando ancora, capì che doveva togliersi di lì e rientrò negli uffici di Associated Press.

Tra le foto che aveva fatto alle persone in caduta libera dalle torri, alle persone che andavano a morire schiantandosi a terra in fuga da altre morti, una lo colpì subito per la sua potenza formale e simbolica: sullo sfondo di linee verticali delle due torri, precisamente a separare il profilo di una da quella dell’altra, la sagoma di un uomo verticale e capovolta, con le braccia allineate al corpo e una gamba compostamente piegata, come in un tuffo, come una freccia, era stata bloccata nella fotografia, ferma e rivelatrice di velocità insieme. Era una foto pazzesca. Uscì sui giornali di tutto il mondo il giorno dopo.

Ma quella fotografia, e le altre di chi si gettò dalle torri, e tutto il tema del come lo fecero, perché lo fecero, chi fossero, quanti fossero, diventò rapidamente un delicatissimo tabù per l’informazione americana e il dibattito sulla strage. Ci fu chi vide in quelle immagini una irrispettosa indiscrezione nei confronti di quel gesto estremo, obbligato, quasi un’umiliazione sommata alla morte. Ci furono i parenti dei morti che per anni, e molti di loro ancora oggi, hanno combattuto tra il desiderio di sapere come siano morti i loro cari e la speranza di non saperlo. Ci fu chi attribuì alla scelta di chi saltò un tratto di pavidità, quasi che le loro morti fossero meno eroiche di chi fu ucciso dal fuoco e dal crollo: quasi si fossero suicidati. Molti da allora, per questa ragione, non vogliono sia usata l’espressione “suicidi” per quelle morti. Ci furono familiari che non vollero pensare o sapere che i propri cari non avessero sperato fino all’ultimo di tornare a casa da loro.
Le immagini dei “falling men” subirono da subito rimozioni, censure, pudori, finirono confinate su siti web per voyeurismi vari o video di YouTube affollati di avvisi e discussioni anche violente, e persino le storie di quei salti furono eluse il più spesso possibile. Il New York Times, che mise la foto più famosa a pagina 7 l’indomani delle stragi, fu molto attaccato dai lettori, e non la pubblicò più fino al 2007.

Nel 2004 un articolo del New York Times affrontò di nuovo la questione. Moltissime immagini descrivevano i salti nel vuoto, le persone che si aggrappavano all’esterno delle finestre, che si affacciavano in cerca di riparo dal fuoco, che si gettavano, da sole o due alla volta, poi separate dalla velocità, o appese a improbabili e perdenti paracaduti improvvisati. I loro voli erano durati circa dieci secondi, a velocità che raggiungevano i 150 chilometri all’ora. E nessuno sapeva quanti fossero morti così. Una stima fatta da USA Today nel primo anniversario parlava di 200 morti: circa l’8% del totale. Altre valutazioni dicevano 50. Di oltre tremila uccisi, erano state le vittime la cui morte era avvenuta davanti agli occhi di tutti, l’espressione pubblica della strage avvenuta nella sua gran parte lontano dagli occhi, tra fumo, lamiere e fuoco. I primi cominciarono a saltare pochi minuti dopo il primo schianto nella torre Nord. Dalla Sud si gettarono meno persone, perché fu colpita dopo e alcuni erano già fuggiti, perché crollò più rapidamente dopo lo schianto dell’aereo, perché nella torre Sud rimasero intrappolate in un numero di piani più grande.

In molti si sono interrogati sui pensieri di coloro che saltarono: se furono spinti da qualche speranza di farcela. Più probabilmente, dicono gli esperti, si trovarono senza scelta, come chi abbia la mano sul fuoco su una candela e abbia come unica reazione quella di toglierla. Almeno mille persone sopravvissero agli schianti degli aerei e rimasero senza via di fuga, con le scale di emergenza bloccate. Alcune ricostruzioni sostengono che ci furono persone scaraventate fuori dalle esplosioni, e altre che caddero nella calca delle piccole folle che cercavano aria dalle finestre. Una di loro uccise un vigile del fuoco a terra, travolgendolo.

Anni dopo le stragi, una scultura intitolata “Tumbling Woman”, creata da un artista che aveva perso un amico nella torre Nord, fu esposta al Rockefeller Center: raffigurava una donna in una caduta, capovolta. Fu rimossa rapidamente, in seguito alle proteste e alle minacce ricevute dalla galleria che l’aveva esposta. Era troppo presto, rispetto all’abitudine alla rappresentazione e testimonianza di altre tragedie della storia che abbiamo costruito con altri eventi storici.

Nel 2003 il giornalista Tom Junod aveva scritto un lungo articolo per l’edizione americana del mensile Esquire, dedicata a coloro che si gettarono, e all’uomo della foto più famosa, “Falling man”. Junod raccontò dei tentativi di alcuni suoi colleghi di identificarlo, tentativi complicati dalle resistenze dei parenti a contemplare la possibilità che i loro cari si fossero gettati. Gli indizi sugli abiti dell’uomo – in particolare il grembiule bianco, all’inizio scambiato per una camicia – suggerivano che lavorasse per uno dei ristoranti o servizi di cucina del World Trade Center, in particolare il famoso Windows of the World. L’uomo era più probabilmente ispanico che nero, e gli ingrandimenti delle altre undici foto della sequenza di Drew che lo ritraevano mostravano una t-shirt arancione sotto il grembiule.

Per un periodo, l’uomo fu identificato come Norberto Hernandez, un cuoco della pasticceria di Windows of the World. La sua famiglia si divise sul riconoscimento – il dolore del pensiero che li avesse “traditi” la travolse, e ci fu chi scrisse loro su internet che Norberto sarebbe andato all’inferno – , ma nel suo articolo Junod alla fine concluse che non poteva essere lui. Le sue indagini furono lunghe, e il suo articolo si conclude con la più credibile ipotesi che l’uomo della foto sia Jonathan Briley, un altro impiegato del ristorante, ma senza certezze. Anche se Junod è tornato sulla storia un anno fa, con ancora meno dubbi.

“Falling man” è diventato nel frattempo il titolo di un romanzo di Don DeLillo, un protagonista di quello di Jonathan Safran Foer “Molto forte, incredibilmente vicino”, un documentario ispirato all’articolo di Tom Junod, e una immagine più storicizzata che nei primi anni dopo le stragi. Richard Drew continua a esserne intervistato. Sono passati dieci anni.

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