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  • Venerdì 9 settembre 2011

La Libia dopo Gheddafi

L'Economist spiega che cosa resta da fare ai ribelli, perché finora sono stati bravi e perché ci sono ragioni per essere ottimisti

L’Economist di questa settimana affronta la questione del dopo Gheddafi spiegando che cosa rimane da fare ai ribelli per completare davvero la fine del regime, e perché possono essere ottimisti sul futuro della Libia.

Non ci sono ancora segnali visibili della presenza di un governo a Tripoli. Alcuni ministri sono arrivati da Bengasi, la base dei ribelli nell’est. Il Consiglio Nazionale Transitorio, composto da circa quaranta persone, si dovrebbe trasferire qui presto. Nel frattempo la città è controllata dai gruppi di volontari e dai ribelli, che la pattugliano armati a bordo di pick-up. Gli abitanti di Tripoli sembrano felici di vederli, nonostante la loro tendenza a premere il grilletto per festeggiare. Ma il CNT, per evitare di alienarsi le loro simpatie, li sta invitando a tornare ai loro paesi di origine e sta facendo i primi passi per registrare e raccogliere tutte le armi.

Prima di tutto, spiega l’Economist, i ribelli devono finire di combattere. Al momento soltanto tre centri urbani sono rimasti ancora sotto il controllo delle forze fedeli a Gheddafi: Sirte, la città in cui è nato l’ex dittatore libico, Bani Walid, a sud est della capitale, e Sebha, nell’interno della Libia. Le cose sembrano andare bene al momento. A Bani Walid i lealisti sono sempre più isolati e a Sebha molte delle tribù locali in passato sono state ostili al colonnello. Certo, ci sono i Tuareg che lo hanno a lungo sostenuto. Ma anche loro sembrano sul punto di abbandonarlo.

Poi i ribelli dovranno eleggere un “congresso nazionale” – entro otto mesi dice l’Economist – e scrivere una costituzione in non più di sessanta giorni. È questa la parte più difficile. La Libia è un paese con poca esperienza di democrazia, nessun partito politico, un sistema giudiziario fragile e un sistema giornalistico a pezzi. L’esercito dei ribelli, per quanto abbia fatto molteplici progressi dall’inizio della guerra, resta malamente organizzato. E in questi mesi le armi sono circolate un po’ ovunque, senza troppi controlli. A tutto questo si aggiungono i problemi strutturali lasciati da un regime che ha governato per 42 anni: le infrastrutture sono scadenti, le amministrazioni incompetenti e corrotte.

Infine ci sono le tensioni tra chi vorrebbe la completa epurazione della vecchia classe dirigente e chi invece predica maggiore calma e pragmatismo. Finora sembra avere prevalso la linea del dialogo, che lascia ben sperare anche di fronte al rischio, più volte paventato come era successo per l’Egitto, di una possibile deriva integralista islamica del paese. La maggior parte dei libici, dice l’Economist, scuote la testa all’ipotesi dell’arrivo di al Qaida. La società libica ha già un’impostazione molto tradizionale, dicono. Abdel Hakim Belhaj, il nuovo comandante delle forze armate di Tripoli accusato in passato di legami con al Qaida, assicura di volere solo la nascita di uno stato civile fondato sulla giustizia. «Restituiremo le armi», ha detto nei giorni scorsi a Le Monde. «Non siamo qui per imporre un regime come i Talebani».

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