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  • Lunedì 18 luglio 2011

I 33 minatori cileni, un anno dopo

Come è cambiata la vita degli uomini che circa un anno fa restarono intrappolati sotto terra, restandoci per 69 giorni

Un anno fa circa, era il cinque agosto, trentatré minatori rimasero intrappolati a 700 metri di profondità dentro una miniera di oro e rame di San José, nel nord del Cile. La loro storia fu seguita giorno dopo giorno dalla stampa di tutto il mondo e culminò con una diretta televisiva del loro salvataggio – 69 giorni dopo – che raggiunse un’audience complessiva di circa un miliardo e mezzo di spettatori. A un anno di distanza, Angus McQueen racconta sul Guardian che ne è stato da allora della loro vita e di quella delle loro famiglie.

«Non sono eroi. Non siamo eroi. Siamo solo delle vittime», mormora Lilly Ramirez, moglie di Mario Gomez, che a 63 anni era il più vecchio dei 33 minatori che rimasero intrappolati sotto al deserto del Cile. Per Lilly, tutto iniziò come nel peggiore degli incubi condivisi da tutte le famiglie di minatori. Stava preparando da mangiare come ogni sera per Mario, una delle loro figlie, Romina, e la loro nipotina di un anno, quando qualcuno bussò alla porta. Andò ad aprire e trovò uno dei manager della miniera. L’uomo disse che c’era stato un incidente e che tutti sarebbero stati liberati entro il mattino successivo. «Gli dissi di non prendermi in giro», racconta Lilly. «Che conoscevo la precarietà delle condizioni della miniera e che se c’era stato un crollo non sarebbe stato possibile tirarli fuori in poche ore». Mollò tutto così com’era e costrinse l’uomo a portarla in macchina fino alla miniera. Sarebbe rimasta lì, nel mezzo del deserto di Atacama, per i successivi 69 giorni.

Quando Lilly arrivò alla miniera, una prima squadra di soccorritori era già riemersa senza essere riuscita a trovare un modo per raggiungere i minatori intrappolati. «C’era il caos totale. Nessuno sapeva che cosa stava succedendo. Non sapevano neanche quante persone ci fossero esattamente». Consapevole di quanto l’azienda stesse tagliando i costi per la sicurezza della miniera, sapeva che difficilmente si sarebbero impegnati per giorni e giorni nel tentativo di salvare gli uomini rimasti intrappolati. Decise allora di bloccare la strada insieme ad altri parenti che nel frattempo erano arrivati in soccorso: «Sapevamo che se i soccorritori se ne fossero andati, sarebbe tutto finito. Allora iniziammo a pregarli di non lasciarci da soli, di aiutarci a fare pressioni sui manager della miniera». Anche il capo della polizia locale oggi conferma che se non fosse stato per l’insistenza e la tenacia dei familiari probabilmente i tentativi di salvataggio si sarebbero esauriti dopo il primo fallito.

Nel trionfo del salvataggio finale, la storia di quei primi giorni tende a essere dimenticata. Pochi si ricordano di Lilly e delle altre donne che riuscirono a trasformare una tragedia locale in un evento nazionale, e poi mondiale, e in questo modo a salvare i loro uomini. «Le autorità continuavano a cercare di allontanarci. Ci dicevano che i bambini si sarebbero ammalati a stare lì, che dovevano andare a scuola, che non dovevamo intrometterci». Ma loro non si arresero e nel giro di pochi giorni quasi tutta la famiglia di Mario Gomez si accampò accanto all’ingresso della miniera. «Ci rivolgemmo al presidente del Cile perché non permettesse che i nostri uomini venissero abbandonati. Ci rivolgemmo a lui come a un padre, chiedendogli di mettersi nei nostri panni».

Furono fortunate. Il governo era stato duramente criticato per come aveva gestito l’emergenza terremoto di sei mesi prima. E questa volta non poteva permettersi di sbagliare. Il ministro dell’Industria Mineraria, Laurence Golborne, fu mandato sul luogo dell’incidente. «Iniziammo a renderci conto che arrivavano sempre più giornalisti», prosegue Lilly. «Se qualcosa non ci andava bene, bastava che organizzassimo una conferenza stampa lì fuori. La stampa capì che stavamo facendo il loro lavoro: costringere il governo a prendersi carico delle proprie responsabilità». I primi diciassette giorni furono i più difficili per le famiglie dei minatori. Nessuno sapeva se ci fosse ancora qualcuno vivo. Ogni giorno passava in un susseguirsi di speranza e angoscia, che contribuiva a mantenere alta l’attenzione dei media cileni. Non bisogna dimenticare che la storia divenne un caso seguito da tutta la stampa mondiale solo dopo che fu stabilito un primo contatto con i minatori e accertato che erano vivi. «Ricordo che svenni per la gioia», racconta Lilly. «Poi andai a pregare davanti alla statua della Vergine Maria».

Poi iniziarono i video-messaggi. Le autorità cilene erano riuscite a calare una telecamera giù per il piccolo buco scavato e i minatori girarono un primo video di 45 minuti in cui raccontavano come vivevano nella miniera e cantavano l’inno cileno. Nei video che arrivarono nei giorni successivi ci furono anche promesse di matrimonio e imitazioni di Elvis Presley. Il loro salvataggio fu seguito in diretta da tutto il mondo.

Le squadre di soccorso erano riuscite a scavare un tunnel di collegamento lungo 622 metri e uno per volta i minatori riemergevano all’interno di una capsula d’acciaio che impiegava circa 30 minuti per andare giù e poi tornare in superficie. Il rituale dell’uscita si ripeté identico trentatré volte. L’apertura della gabbia, lo scioglimento delle cinghie di protezione, i parenti che scalpitano e aspettano imbarazzati che qualcuno dica loro che possono fare quei due passi per abbracciare il salvato, preceduti dagli uomini del salvataggio che gli sono già intorno. E poi i caschi che cadono, le bandiere che vengono dispiegate, gli abbracci che si ripetono, e quello col presidente cileno Sebastian Pinera, tutto però con un ordine e una compostezza rari, e ogni volta senza che si perdesse l’emozione di assistere a un simile spettacolo.

Poi ci fu il ritorno a casa, e a una vita che improvvisamente non era più quella di prima. Le coppie si trovavano seguite da telecamere ogni volta che uscivano da casa. La domanda era sempre la stessa «Come vi sentite?». Iniziarono gli inviti per le interviste e per i programmi televisivi. Edison Peña, quello che era diventato famoso per la sua imitazione nella miniera di Elvis Presley, fu invitato a qualche trasmissione ma non ottenne il successo che sperava. E via via che i sogni milionari si affievolivano – a un certo punto si era parlato anche della possibilità di fare un film sulla loro storia – tutti iniziavano a fare i conti con una normalità che faceva sempre più fatica a tornare.

La vita con Mario non è facile, racconta Lilly. I pochi soldi che sono arrivati li ha usasti per allargare di due stanze la sua casa. Per molte altre delle famiglie, sono serviti semplicemente a vedere per la prima volta uscire acqua corrente dai rubinetti. Pochi sono tornati alle loro vite di prima. Hanno ricevuto assistenza psicologica pagata dal governo, ma non sono stati in grado di seguire il percorso con regolarità perché hanno cercato di partecipare al maggior numero possibile di eventi a cui venivano invitati. Alcuni oggi dicono di non avere bisogno di assistenza, altri si lamentano che gli incontri sono inconcludenti. A emergere è soprattutto la mancanza di una chiara strategia per aiutarli a tornare alla normalità. Dopo tutto, sono rimasti intrappolati sotto terra per il periodo più lungo di cui si abbia mai avuto notizia. Ma la terapia in molti casi si è limitata soltanto alla somministrazione di pasticche per dormire e calmanti.

È scioccante sapere che Ariel Ticona, uno dei minatori, ha deciso di tornare a lavorare in miniera per guadagnarsi da vivere. Ma sono in molti ormai a dover affrontare la stessa realtà. Che fare? Come sopravvivere? Quelli che speravano che la fama internazionale li avrebbe resi milionari sono rimasti delusi. Naturalmente ci sono dei processi in corso, contro la miniera e contro il governo, che permettevano che delle persone lavorassero in quelle condizioni. Ma servirà molto tempo, e intanto le famiglie sono lasciate a se stesse. Giù nella miniera in quei 69 giorni quegli uomini hanno fatto i conti con la vita in un modo che possiamo immaginare a fatica. Molti avevano promesso che sarebbero stati degli uomini migliori se si fossero salvati. Sicuramente lo credevano. Intrappolati nella pancia della terra, pensavano di avere capito meglio il mondo e la loro vita. Ma la realtà si è rivelata molto più complessa. Per loro e per le loro mogli e compagne che li hanno aspettati. Da quei 700 metri sotto terra, Mario aveva promesso a Lilly che l’avrebbe sposata. Diverse date del matrimonio si sono susseguite nell’ultimo anno, ma la promessa non è ancora stata mantenuta.