Il pane di una volta al Grande Fratello

In un nuovo libro Antonio Pascale riflette sul successo del "sapere nostalgico"

21st October 1931: Farmers harrow a ploughed field at Lord Lymington's estate in Basingstoke, Hampshire. (Photo by Fox Photos/Getty Images)
21st October 1931: Farmers harrow a ploughed field at Lord Lymington's estate in Basingstoke, Hampshire. (Photo by Fox Photos/Getty Images)

L’editore Codice pubblica una serie di piccoli libretti che raccolgono i testi delle conferenze tenute alla manifestazione culturale torinese di Biennale Democrazia. In “Democrazia: cosa può fare uno scrittore?” sono contenuti gli interventi di Antonio Pascale e Luca Rastello: quello di Pascale (che ha un blog sul Post) sintetizza in modo molto efficace alcuni dei temi di cui ha scritto in altri suoi libri, e in particolare racconta l’attualissimo tema del rapporto della cultura di sinistra con la sopravvalutazione del passato: il “sapere nostalgico”.

Il sapere nostalgico è diverso dalla nostalgia, anzi potremmo arrivare a sostenere che ne sia una versione degradata. La nostalgia, si sa, produce un senso di struggimento: non possiamo tornare lì dove siamo stati felici un tempo (o dove ci sembra d’essere stati felici). Molte opere narrative nascono in fondo da questo struggimento. Come possiamo non commuoverci almeno per un attimo davanti alla delusione che il presente così com’è non ci basta? Volevamo di più, o almeno desideravamo mantenerci sul filo di ricordi lieti. Niente di male, quindi, nella nostalgia.
Il sapere nostalgico invece è una presunzione di sapere. Si presuppone che tutto quello che è avvenuto nel passato abbia valore, e che quello che accade nel presente sia invece sinonimo di corruzione. Questa sindrome è parecchio diffusa; possiamo riderne o meno, ma di fatto fonda un atteggiamento diffuso.

Uno dei concorrenti del Grande Fratello 9, Marcello, di certo non più che ventenne, ha dichiarato, en passant, che il pane non ha più il sapore di una volta. Proviamo a prendere sul serio dichiarazioni del genere: fanno parte dello spirito del tempo. Siamo portati ad essere tolleranti e a sorridere quando la suddetta dichiarazione viene fatta dai nostri nonni; ma è molto difficile capire come possa un ventenne ricordare e apprezzare il vecchio sapore del pane di una volta.

Una volta, scusate il bisticcio, la condizione temporale una volta significava rimandare veramente a “una volta”, ossia a tantissimo tempo fa e non ad appena dieci anni fa. Verrebbe da dire: una volta non è più quello di una volta. Insomma, davanti ad affermazioni del genere non ce ne possiamo uscire con una massima sulla relatività del tempo.
Se lasciamo in pace Marcello, per il momento, e consideriamo il pensiero del nostro poeta nazionale, Pier Paolo Pasolini, possiamo tentare di definire meglio il suddetto atteggiamento.

Un’avvertenza: questo non è un saggio sul pensiero di Pasolini (troppo ampia e complessa e variegata la sua produzione); è solo un tentativo di individuare un aspetto ricorrente, che, appunto, possiamo definire come sapere nostalgico.

Pasolini scrisse un saggio, Gennariello, che apparve su “Il Mondo”. Parlava a un fantomatico scugnizzo napoletano, voleva spiegargli cosa avrebbe dovuto imparare e cosa rifiutare. La lunga epistola cominciava con una considerazione: i napoletani mi sono parecchio simpatici, perché appartengono a un’antica tribù, passata attraverso la modernità senza farsi corrompere. Ogni cosa che avviene a Napoli è uno scambio di antico sapere; anche se ti rubano un portafoglio, è uno scambio di antico sapere.

Dunque, se quello che avviene a Napoli è il prodotto culturale di un’antica tribù incorrotta che pratica lo scambio di antico sapere (e si viene così a raffigurare un mondo perfetto), chi non vorrebbe farsi derubare del portafoglio da un indigeno che pratica lo scambio di antico sapere? Meglio l’indigeno che il malvivente qualunque, ordinario; si può ben affermare che ogni variazione da questo ideale sia di sicuro una caduta. Non c’è misura che tenga se si parte da una schema siffatto.

C’era una volta, quindi, un mondo popolato da simpatici indigeni. Popolari e dunque non borghesi. Gli indigeni incorrotti incarnavano, come nel perfetto spirito romantico, un’idea pura. I rapporti erano selvaggi ma sani; si era forse soggetti alla fame o all’ignoranza, ma meglio l’ignoranza popolare che quella borghese, chiosava Pasolini. Insomma, gli indigeni incorrotti non erano viziati dai soliti e spregevoli meccanismi borghesi (niente mercificazione, niente alienazione).

L’idea di Pasolini oramai ha fatto scuola. Ma viene da lontano. Sono tanti i romantici che hanno di volta in volta individuato uno speciale valore di purezza, di forza, di incorruttibilità, in una persona oppure in una stirpe, o ancorain una nazione. Quello che non regge è proprio la struttura di questo pensiero. Molto debole. Nel caso di Pasolini potrei portare, per esempio, la mia testimonianza di napoletano, con svariati parenti che si perdono negli anni addietro, fino all’Ottocento: i tuareg o gli indigeni non li ho mai visti. E soprattutto quando ti rubano un portafoglio a tutto pensi (e maledici parecchi santi) tranne allo scambio di antico sapere.

Questo modo di pensare è facilitato sia dall’osservazione superficiale sia dalla sovrastruttura creazionista. Chiunque abbia letto Darwin rifiuta, infatti, il principio primo, ossia l’epoca incorrotta. È infastidito anche dall’ipotesi che “prima” fosse meglio di “oggi”. Non considera queste categorie, “meglio” e “peggio”, come specifiche proprietà del passato o del futuro, ma come il labile frutto di una situazione contingente. Chi abbia letto Darwin, infine, è purtroppo (tragicamente) cosciente che non si può ricominciare da zero, perché l’evoluzione lo impedisce: troppe complesse integrazioni e troppe imperfezioni ci dominano per pensare facilmente ad azzerarle. I nostri sogni non sono migliori di noi. Se non si può ricominciare da zero, nemmeno è possibile pensare a un “momento zero”.

Un intellettuale illuminista (e tragico) come Ernesto De Martino ha indagato con strumenti analitici diversi, e certo più profondi, la cultura contadina o popolare. Ne ha evidenziato le specificità e gli elementi che creavano dolore. Una cosa era certa: nella sua analisi essere contadino, povero, selvaggio, tuareg, indigeno ecc., non era certo una vocazione, ma una condizione. C’è di più. I contadini non si rassegnano ad essere tuareg. Se fossero davvero felici non si muoverebbero di certo dalle mitologiche braccia della natura.

In sostanza, il sapere nostalgico evita di confrontarsi con la mutazione, in quanto è l’idea stessa di mutazione a generare corruzione. Il sapere nostalgico rimuove il passato e al suo posto fa capolino un surrogato idealizzato. Ogni idealizzazione è generata, si sa, da una rimozione, e nell’esempio specifico del contadino la sensazione è proprio questa: abbiamo dimenticato in fretta quanto duro fosse quel suo mondo, e a quali tristi e misere condizioni fosse soggetto. Rimuovendo queste durezze e queste asperità, al loro posto sono spuntate immagini di copertura, e tutte fortemente idealizzate e pubblicizzate: contadini felici che vivevano nella più completa armonia con la natura, contenti al tramonto sotto una quercia. Il sapere nostalgico è dunque un inquinante perché tende a formare un mondo passato, perfetto e puro, che qualcosa o qualcuno successivamente avrebbe corrotto. Al sapere nostalgico, dunque, manca l’analisi.

Tuttavia, anzi proprio per questo, il sapere nostalgico ha il vantaggio di piacere al grande pubblico. Quelli che rimpiangono sono in costante aumento. È un paradosso: viviamo un’epoca nella quale è straordinariamente facile viaggiare, acquistare, informarsi, conoscere; nella quale il tempo libero è in aumento, abbiamo luce a disposizione e beni di consumo pronti all’uso. Perché noi che usiamo (o abusiamo di) tutti i prodotti della modernità, poi rimpiangiamo quello che è stato? È ormai una costante universale. I best seller di sicura presa sono quelli che ipotizzano un ritorno alle origini.

Ora, in Italia questo atteggiamento è stato per lungo tempo specifico della destra: l’idea di tradizione come patrimonio di antichi saperi. Il concetto di mito, di arcaico, la difesa del territorio. Autarchia, insomma, un concetto imparentato con il sapere nostalgico: il valore è nel passato. È dai tempi del fascismo che l’Italia fonda una parte del suo immaginario sul concetto di autarchia: possiamo (dobbiamo) farcela da soli perché il mondo fuori ci è nemico. Dunque è necessario sfruttare appieno le nostre potenzialità, il nostro ingegno italico, impegnarci e portare avanti i prodotti e i beni di consumo, rifiutando quelli stranieri. Lo straniero, infatti, è un barbaro che corrompe usi e costumi consolidati, i nostri beneamati mores.

Questa visione del mondo (visione, tra le altre, che il fascismo utilizzò durante il ventennio, solo per tenere buoni i contadini e manipolarli meglio) è stata poi esportata a sinistra. Può darsi che Pasolini abbia una parte di responsabilità; di sicuro la sinistra ha cominciato a rimpiangere. Per evitare di fare i conti con la sconfitta e di elaborare un nuovo piano strategico con dettagliata analisi costi-benefici, ha preferito mettere su un triste teatrino con due attori: da una parte il valore della tradizione e dall’altra la corruzione della modernità. La sinistra si fa carico di ospitare la resistenza, intesa come trincea all’interno della quale si conservano valori ancorati a un lontano passato. A cosa si resiste? Alla globalizzazione, per esempio.

Pertanto va a finire che la tradizione è sempre millenaria, e dunque carica di significati, e la modernità e la globalizzazione che segue è sempre omologante e corruttrice di antichi saperi. Sono discorsi che solo vent’anni fa quelli di noi che erano di sinistra avrebbero respinto perché, appunto, considerati di destra e pure un po’ fascisti; ora invece fanno tendenza, e allora ci tocca assistere allo scontro epico tra la musica popolare, i cibi genuini, i piccoli contadini, i locali biologici, contro le multinazionali, il grande mercato, il complotto economico.

Il risultato più immediato ed evidente di questo atteggiamento? Prima di tutto la difficoltà a esaminare questioni complesse. La modernità è variopinta e pone parecchi problemi, spesso di nuova fattura. E purtroppo la risposta più immediata che i pensatori nostalgici ci regalano è un senso di scoramento, di dannazione: quindi il futuro smette di far parte del nostro disegno di vita, anzi diventa un territorio maledetto.

Credere nel futuro, oggi, è un paradosso: il futuro è opposizione a tutti quegli strumenti che potrebbero regalarci un futuro migliore.

Una conseguenza del sapere nostalgico: gli gnomi lavorano, gli intellettuali rimpiangono

Che spiacevole sensazione: il mondo oggi se migliora non migliora per il contributo degli intellettuali; sembriamo tutti, infatti, troppo afflitti, depressi e incupiti dalla modernità. Insomma, il mondo avanza grazie alle misurazioni che modesti gnomi cercano di produrre, magari di notte, in silenzio, mentre gli intellettuali di giorno tendono a ragionare, spesso accecati dalla luce. Allora un dubbio: ma i nuovi intellettuali, ovvero i tragici misuratori, sono gli gnomi?

Ecco per esempio la storia di uno gnomo, ossia di un intellettuale moderno, preoccupato come tutti delle sorti del mondo, ma al contrario di tanti suoi colleghi capace di usare bene la sua techne: Norman Borlaug, morto all’età di 95 anni il 12 settembre 2009. Il suo nome non dirà molto ai più, eppure ogni giorno utilizziamo e sfruttiamo alcune delle sue innovazioni in agricoltura. Borlaug può essere considerato, senza troppe esagerazioni, l’uomo che ha sfamato una buona metà del mondo: il padre della Rivoluzione verde. Per il suo impegno ha ottenuto il premio Nobel per la pace, nel 1970. Le sue ricerche hanno portato a sviluppare nuove varietà di grano, riso e altre colture ad alta produttività, in un momento storico in cui pareva – e gli intellettuali se ne lamentavano – che l’aumento della popolazione mondiale avesse superato la capacità dell’agricoltura mondiale di produrre cibo. Nel 2000, durante una conferenza, pose una domanda a tutti quelli che mettevano in dubbio i benefici della Rivoluzione verde – in genere bianchi occidentali con un surplus calorico. «Chiedo spesso ai critici della moderna tecnologia agricola: come sarebbe stato il mondo senza gli avanzamenti tecnologici che sono accaduti? Se nel 1999 avessimo ancora avuto le rese mondiali di cereali del 1961 (1531 chilogrammi per ettaro), avremmo avuto bisogno di quasi 850 milioni di ettari di terreno in più, e della stessa qualità, per produrre i 2,06 miliardi di tonnellate di cereali prodotti nel 1999. Alcuni critici hanno detto che la Rivoluzione verde ha creato più problemi di quelli che ha risolto. Questo non lo accetto, perché io credo sia molto meglio per l’umanità cercare di risolvere i nuovi problemi causati dall’abbondanza piuttosto che avere a che fare con il vecchio problema della fame». Parole di buon senso. Ragionevoli. Ma allora perché in Italia alcune questioni legate all’innovazione tecnologica in agricoltura, di cui Borlaug era un sostenitore, o nel campo dell’energia sono ignorate? Peggio, sono trattate male, senza far uso della sana metodologia scientifica, tanto che si è formato negli anni un immaginario fasullo, ricco di assurde leggende metropolitane. Come mai in Italia vale più la voce di un comico che vaneggia sulle pagine di un blog che quella di un rigoroso scienziato?

Ancora più strano e duro da sopportare è il fatto che una buona parte della sinistra, alla quale dovrebbero essere affidate le sorti progressiste, cioè la fiducia nel futuro e nell’intelligenza degli uomini, sembra confusa, del tutto incapace di affrontare con metodo e rigore le questioni legate, per esempio, al biotech. Negli anni scorsi due decreti in successione, prima di Pecoraro Scanio poi di Alemanno, allora ministri delle Politiche agricole (chi è di destra fra i due? Boh!) hanno bloccato la ricerca biotecnologica in agricoltura. Come mai? Perché sia la destra sia la sinistra, grazie anche ad analisi intellettuali inquinate dal sapere nostalgico, sono ferme al concetto di “naturale” o dei “bei tempi andati”.

C’è stato uno scambio simbolico, i valori di destra hanno conquistato, senza nemmeno lanciare una regolare OPA, i forzieri della sinistra. O viceversa; chissà. Fatto sta che se la sinistra ha vinto, l’ha fatto là dove non avrebbe dovuto vincere. Ha sfondato e occupato il territorio che apparteneva alla destra, quello della tradizione e del mito: il sapere nostalgico. Se nell’Ottocento un nuovo spettro si aggirava per l’Europa, quello del comunismo, oggi c’è quello del pensatore nostalgico. Più concretamente assume le sembianze del giovane di buona cultura, umanistica, che contesta tutti o quasi tutti i processi dell’innovazione tecnologica, soprattutto quelli che riguardano l’agricoltura, le biotecnologie, le opere d’ingegneria, nucleare e non.

Il giovane di buona cultura umanista si ritiene, naturalmente, dalla parte giusta del mondo; è di sinistra ma non s’identifica nella sinistra di partito. È facilmente riconoscibile: è quello che lotta contro gli gnomi. Gnomi che vanno avanti un po’ a tentoni, procedono via via per acquisizioni empiriche e lavorano con la carta millimetrata per segnare meglio gli spostamenti in avanti, cioè il dopo rispetto al prima. Gli spettri sono massimalisti ed esoterici, niente misure. Provate a parlare di problemi comuni e medi, come per esempio la questione rifiuti. Sembrerà strano, ma una delle pratiche di buona amministrazione di una città, di una comunità, riguarda proprio i rifiuti: questa materia oscura, che fino a pochi anni fa gli spazzini raccoglievano di notte, per non disturbare, in silenzio, ora è sotto gli occhi di tutti.

Come risolverla? Che strumenti abbiamo ora, allo stato dell’arte? Per esempio gli inceneritori. Lo spettro è quello che li contesta e parla di nanoparticelle e diossina. “L’ha detto Grillo” ha sostituito la vecchia e cara frase “l’ha detto la televisione”. È facile notare come il giovane umanista abbia poca esperienza della moderna techne, sia insomma a digiuno di metodologia scientifica, confonda facilmente i dati e non sia solito usare strumenti comparativi.

Ragion per cui crede che il mondo sia incontaminato. E se per esempio gli fate notare che una prostituta intenta a bruciare un copertone per strada produce più diossina di un inceneritore, o se ancora insistete per difendere gli gnomi intellettuali che da anni stanno lavorando per limitare le emissioni di sostanze tossiche (i due terzi dei soldi spesi per costruire un inceneritore servono a limitare residui tossici) il giovane s’indigna e vi ritiene al servizio di qualche multinazionale. In quanto, dice, i suoi dati sono ricavati dal lavoro di scienziati indipendenti, mentre i vostri da scienziati dipendenti asserviti al potere. Capite bene che messa così la questione è di difficile risoluzione: in un regime di risorse scarse, se loro si beccano gli scienziati indipendenti agli altri toccano quelli dipendenti. Davanti a questa affermazione ricattatoria è difficile spiegare che il metodo scientifico si basa sul regime di revisione alla pari. Non si può dire, semplicemente, “ho visto l’unicorno”: bisogna dimostrarlo. Dunque le ipotesi (sull’unicorno) devono essere condivise e riviste da altri scienziati. Non importa che io dica “sono indipendente, credetemi, l’unicorno esiste”. Questo spettro (il giovane di buona cultura umanista) s’insinua in molte trasmissioni di denuncia, come Report, almeno quando si affrontano argomenti complessi come l’agricoltura e il nucleare, tematiche che richiedono soluzioni di compromesso e integrate, via via soggette a modifiche e nuove acquisizioni.

Il fatto è che lo spettro nostalgico, credendo che il passato contenga valori essenziali, sta diventando un problema, perché evanescente com’è si appropria di ogni luogo e di questioni che non possono essere di sua competenza. Il giovane spettro dichiara il suo “no” continuo: no rifiuti, no nucleare, no chimica, no OGM ecc. Poche cose e ripetute: è lo slogan dei comunicatori e di quelli che credono nel partito delle libertà, con cui gli spettri di sinistra non sono d’accordo ma di cui sposano lo stile. No agli erbicidi, ho letto in un post. Fanno schifo e inquinano, e soprattutto sono prodotti dalle multinazionali. Se gli fate notare che alcuni erbicidi di ultima generazione sono a bassissima tossicità, tanto da non lasciare quasi residui, e che il mondo si migliora anche studiando in laboratorio nuove molecole a basso impatto, loro rispondono che il mondo si migliora non usando l’erbicida, perché questo non può essere un buon prodotto: viene fuori dal ventre oscuro delle multinazionali.

Se gli fate notare che un’agricoltura senza erbicidi richiede il lavoro di mondine che si spezzano la schiena e strappano, naturalmente, le erbacce dai campi, loro rispondono con una dichiarazione religiosa: c’è il biologico. Se gli fate ancora notare che, appunto, le mondine esistevano proprio quando non si usavano gli erbicidi, e volente o nolente, per questioni di arretratezza si produceva in regime di biologico – e per questo, venendo al dunque, chi è contro l’erbicida e vuole migliorare il mondo o studia chimica e cerca di produrre nuove molecole capaci di degradarsi con pochi residui oppure bisogna necessariamente che si candidi a fare la mondina – allora i giovani spettri rispondono: no, non è vero. E comunque, a fare la mondina non ci pensano proprio: no alla schiavitù, dicono. Loro sono, infatti, dalla parte giusta del mondo. Non costa niente, basta dichiararlo: insomma, no dimostrazioni.

foto: Fox Photos/Getty Images