L’Italia da domani

Buon 17 marzo, ma ci interessa soprattutto il 18

Abbiamo avuto delle perplessità su questa festa del 17 marzo, preparata, decisa e raggiunta nel solito ordine sparso e con le consuete approssimazioni. Non siamo tra quelli che apprezzano il cliché del presunto “modo italiano” di fare le cose, e consideriamo pigra e autoindulgente tutta la retorica sull’Italia che diventa forte e unica solo nelle difficoltà e ha nella capacità di arrangiarsi e cavarsela dei tratti peculiari e addirittura ammirevoli. No.

L’Italia a cui siamo affezionati è un posto in cui persone straordinarie hanno fatto cose straordinarie, comportandosi in modi leali e onesti, facendo le cose bene, avendo ambizioni di grandezza e qualità. E l’Italia a cui siamo affezionati è quella che quelle persone, molte persone, hanno sognato ma non hanno mai visto realizzata e non se ne sono dati pace. Un’idea di paese con un senso della comunità, della correttezza, del bene e del male, che trovassero applicazione e costruissero un orgoglio nazionale pari a quello di altri grandi paesi del mondo. Un paese a cui pensare con commozione e partecipazione invece che allargando le braccia. Un paese che non trovasse scuse ai suoi ritardi nella costruzione di un’identità nazionale di cui andar fieri. Un grande paese, prima che una patria.

Sono cose che ci mancano, che a molti italiani mancano. A molti italiani che non hanno per niente care le allegre rivendicazioni delle tradizioni campanilistiche nazionali e del prevalere continuo di appartenenze piccole e tradizionali sulle condivisioni di principi e valori articolati e coltivati. E che non trovano nessuna soddisfazione nell’autocompiacimento sui luoghi comuni nazionali. Ci mancano un luogo e un’unità vera, una cosa da sentire nostra senza essere portati ad evocare immediatamente contrapposizioni e cose che non ce ne piacciono. E non ci accontentiamo delle spiegazioni storiche delle peculiarità locali che impedirebbero all’Italia di essere quello che molti altri grandi paesi sono diventati in termini di coscienza nazionale, civiltà, ambizioni. Nè ci accontentiamo del continuo anacronistico ricorso alle tradizioni di secoli lontani, ai faraglioni di Capri, alle cappelle sistine. Meraviglie che adoriamo ma su cui ci siamo seduti per troppo tempo.

Abbiamo avuto delle perplessità sull’investimento messo in questa festa che celebra quel che l’Italia è stata e non è stata finora, investimento fatto mentre sottraiamo ogni giorno impegno a ciò che l’Italia dovrebbe e vorrebbe essere. Sono i tempi più mediocri della storia nazionale. Ma sancire da dove ripartiamo, prima di ripartire, è una tappa promettente: e tutte le recenti riscoperte di quello che è successo prima che ci trovassimo qui sono un bel capitale iniziale. Però i capitali si investono, per costruire: non si passa il tempo a rimirarli, a stivarli sotto il materasso e a contare le monetine. L’Italia che da domani ci interessa è quella del 18 marzo, e del 19, e del 20, e così via. È l’Italia dei giorni normali, non dei momenti drammatici. È la nostra capacità di produrre qualcosa di cui andar fieri che non risalga a prima dell’alluvione di Firenze, che non abbia sempre e solo a che fare con la tragedia e la sconfitta, che riguardi l’Italia come è oggi e non solo come è stata a volte una montagna di anni fa. La nostra capacità di non dovercela sempre far prestare da qualche antenato, l’Italia.

Buon 17 marzo, e poi darsi da fare e meritarsela.