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  • Lunedì 14 marzo 2011

Netanyahu non vuole la pace (e non la vorrà mai)

È il parere del direttore del New Yorker, che chiede a Obama di farsene carico

Benjamin Netanyahu, detto Bibi, è il primo ministro di Israele. Militare delle forze speciali e combattente nella guerra dello Yom Kippur, era stato premier già dal 1996 al 1999, poi ministro degli esteri, poi ministro delle finanze. È il presidente del Likud, il maggior partito di destra israeliano.

David Remnick, il direttore del New Yorker e autore del reportage su Haaretz di cui abbiamo parlato dieci giorni fa, apre il nuovo numero del settimanale con un ritratto del primo ministro israeliano. Ci si aspetta sempre che Netanyahu, dice Remnick, faccia una svolta verso la moderazione e il buon senso e, come Nixon in Cina, compia il passo della distensione che avvicini finalmente alla risoluzione della questione palestinese. Non che questo per Netanyahu sia facile: durante un pranzo con Remnick qualche anno fa suo padre Benzion Netanyahu, che oggi ha 101 anni ed è stato uno storico dell’Inquisizione Spagnola, si esibì in uno dei discorsi più reazionari che il giornalista avesse mai ascoltato, pieno di disprezzo per gli arabi, i liberali israeliani e tutti i politici americani più a sinistra dei neo-con. Il fratello maggiore di Benjamin, Yonatan, fu l’unico morto nel commando che salvò gli ostaggi del volo Air France dirottato nel 1976 a Entebbe, in Uganda.

Ma storia familiare o no, il resto del mondo e Obama in particolare devono rendersi conto che il momento di svolta non arriverà mai. La situazione in Israele sta peggiorando: Netanyahu si limita a proporre soluzioni che sa benissimo essere inaccettabili per i palestinesi, come uno stato ad interim in metà della West Bank, e ha rifiutato invece le concessioni che i leader palestinese Mahmoud Abbas e Salam Fayyad erano disposti a fare per raggiungere la pace. Della sua coalizione di governo fanno parte gli ebrei ultraortodossi di Shas e i nazionalisti di Yisrael Beiteinu.

Remnick dice che Obama dovrebbe smettere di aspettare una svolta conciliante e pacifista. I termini dell’accordo tra israeliani e palestinesi sono già chiari e non possono essere troppo diversi da quelli già fissati nei colloqui di pace del 2001 e del 2008, che implicano necessariamente la creazione di due stati sovrani. La politica dell’Amministrazione Obama nei confronti del Medio Oriente si fonda sull’appoggio ai cambiamenti democratici degli stati arabi; un appoggio, però, attento e discreto, che faccia leva sugli interlocutori politici più disponibili ed eviti in ogni modo che la situazione sfoci nella violenza. La risoluzione della questione palestinese deve fare parte di questa strategia.

Il problema sta nella politica interna: di Israele, ma anche degli Stati Uniti. Associazioni, lobbisti e gruppi di pressione come l’ADL (Anti-Defamation League) e l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) hanno influenzato per decenni i politici americani, facendo valere il loro potere finanziario e elettorale. Obama, che ha ottenuto quasi l’ottanta per cento del voto degli ebrei americani, è il presidente giusto per andare contro la loro ideologia poco accomodante nei confronti della Palestina e rendersi conto che il loro peso politico non è così schiacciante da condizionare per sempre la diplomazia degli USA.

Il secondo nome di battesimo di Obama è Hussein, e questo per alcuni israeliani sarà sempre motivo di sospetto, sostiene Remnick. Ma è un oratore molto dotato, che può far breccia nel timido e ansioso elettorato di centro di Israele. Il presidente degli Stati Uniti, continua Remnick, deve visitare Gerusalemme quanto prima (è un errore che non l’abbia fatto dopo il discorso del Cairo, nel 2009) e proporre un piano di pace.

L’importanza di un piano di Obama non è che Netanyahu lo accetti immediatamente; anche la leadership palestinese, che è debole e soffre di propri problemi di legittimazione, potrebbe non accettarlo subito, soprattutto sul tema dei rifugiati. Il piano è importante, piuttosto, come un mezzo per gli Stati Uniti per dire che non stanno con i sostenitori del Grande Israele, ma con quello che lo scrittore Bernard Avishai chiama “l’Israele Globale”, quelli che accettano la necessità morale di uno Stato palestinese e capiscono i costi terribili dell’isolamento di Israele.