• Italia
  • Questo articolo ha più di dodici anni

“Ferrara, Giuliano”

L'autobiografia in due puntate che il direttore del Foglio scrisse nel 2003 (quella della CIA, per capirsi)

Il rientro sulle scene politiche e televisive di Giuliano Ferrara nelle ultime settimane ha fatto tornare in circolazione anche una vecchia polemica su un suo racconto di otto anni fa dei suoi rapporti con la CIA. Si trattava di una “autobiografia” in due puntate uscita sul Foglio a maggio 2003 e “scritta per il piacere dei lettori più giovani. Infatti, a forza di dire la verità ai mozzorecchi giustizialisti, e di sputtanarli, loro tentano di sputtanare l’elefante che il ciccione è diventato, e inventano balle. Le precisazioni continueranno, sempre che non annoino”. Oggi ripubblichiamo la prima di quelle due puntate, domenica la seconda.

Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.
Vive a Mosca dal ’58 al ’61, dove il padre è corrispondente dell’Unità. Tornerà a Mosca nel 1990, a regime in dissoluzione (lui ama i regime change) e otto anni dopo essere uscito dall’apparato comunista, al seguito di una moglie americana che lavora nel cinema (una settimana di turismo). Mai stato in un paese socialista dopo il ’61 nonostante dieci anni di carriera come funzionario del Pci. Le vacanze a Capri o a Parigi, invece che da Ceausescu, sono una specie di blasone.

Pubblicità

Ritorno da Mosca, 1961. Scuola pubblica. Primi amori. Educazione sentimentale piuttosto occidentale. Ma dalla storia di Garibaldi che gli raccontava il papà, versione allegramente frontista (Fronte vince, vota Garibaldi: cose del 1948), il fanciullo trae forte spinta ideologica comunista-nazionale. Maturità classica. Primo viaggio a New York al seguito del fratello, aiuto regista di Luca Ronconi nell’Orlando Furioso in trasferta (è il novembre del 1970, “quando morì Charles de Gaulle” è il ricordo dell’adolescente che conosce tutto Dylan a memoria e ama i politici forti).
Iscrizione all’Università di Roma, facoltà di Filosofia, una bolgia ideologica. Polemiche da destra con il compianto maestro Lucio Colletti, ancora un po’ trotzkista e sostenitore della democrazia dei Soviet. Il bamboccio impertinente ripete in polemica col maestro la lezione casalinga di Togliatti sulla “via italiana al socialismo” (la madre era una collaboratrice del tremendo ma intelligente capo del Pci e poi redattore capo della rivista ideologica del partito, Rinascita). Ne nascerà lunga e onorata amicizia con il maestro Colletti, che presto si convertirà con coraggio alla teoria della crisi del marxismo e diventerà un ex comunista liberale anticomunista un po’ pazzo, come l’allievo, ma tosto.

Primi lavori di militante alla Stampa e propaganda con Gian Carlo Pajetta, che poi lo invia a Torino, dove arriva il 5 novembre del 1973, per “andare alla scuola della classe operaia e sottrarsi alle insidie della curia romana” (parole di Pajetta). Resterà a Torino fino al settembre del 1982, gli esami di Filosofia sono fermi a undici su venti. Ricoprirà a Torino questi incarichi. Giornalista senza bollini dell’ordine e senza praticantato presso la rivista Nuovasocietà, ideata da Diego Novelli e poi a lungo diretta e rimessa all’onor del mondo da Saverio Vertone (nel ’75 Novelli diventa sindaco della città). Amicizia con Novelli, Vertone (vera amicizia, che continua nonostante le sue follie politiche oneste e deliranti), e Adalberto Minucci, supercapofunzionario. Altri incarichi. Capo dell’organizzazione politica del Pci alla Fiat Mirafiori (che porterà a duemila iscritti, perché è un buon attivista), poi responsabile della sezione problemi dello Stato (lotta al terrorismo), della sezione culturale e del comitato cittadino (organizzazione del partito in città).

Il soggetto si caratterizza, tra l’altro, per una spiccata attitudine a parlare senza eufemismi, a criticare l’inviolabile tradizione operaista torinese e la politica della Camera del lavoro che porterà gli operai torinesi a essere bastonati spietatamente da Cesare Romiti e dalla famiglia Agnelli nel novembre del 1980. Coordina riunioni politiche (ha imparato il torinese, che parla fluentemente) nella saletta del comitato federale di Torino, sotto una grande riproduzione di Guernica, con Luciano Violante e Gian Carlo Caselli: il tema è la lotta al terrorismo, Ferrara ci crede sul serio, è esperto di estremismi contigui al terrorismo, si muove in una logica emergenzialista e non garantista, assume con molti altri seri rischi personali per via della sua visibilità (pesa già centotrenta chili). Un suo articolo su Repubblica dell’epoca, dopo il varo del questionario anti terrorismo, si intitola “Diritto di delazione”. Sempre eccessivo, ma è con la delazione che le Br vengono sconfitte.

Un anno prima della sconfitta alla Fiat, nel 1979, i sindacati Fiom torinesi combattono duramente la decisione di licenziare 61 dipendenti collegati al terrorismo, che miete vittime quotidianamente in città, incendia le fabbriche e si collega con gli estremisti nel vivaio di Mirafiori, dove cortei sbandati di operai pestano i capi e li costringono a marciare alla testa della folla con la bandiera rossa. La linea di Ferrara contro un sindacato che già allora segue Dario Fo e altri pazzerelloni girotondini antemarcia è: “Siete matti, queste cose fanno vergogna e sono anche la premessa di una sconfitta del comunismo che piace a me” (si chiamava all’epoca eurocomunismo, si estrinsecava nella rivolta berlingueriana contro il partito comunista sovietico che lavorava con Cossutta per farlo fuori, e precipitava nell’assunto secondo cui i comunisti dovevano andare al governo, sacrificando ogni forma di estremismo e avviandosi verso una socialdemocrazia europea con altre forze politiche popolari, in primis la Dc, nel famoso “compromesso storico”, diciamo così bipartisan). Per affermare questa linea nel bastione operaista torinese Ferrara fa volentieri compromessi politici: appoggia per qualche tempo la parola d’ordine dell’autoriduzione delle bollette elettriche, e quando alla Fiat tutto precipita con i licenziamenti, si dà da fare ai picchetti della fabbrica e fa la sua parte lanciando uova (vecchio vizio beffardo ed estremista) agli impiegati che vogliono entrare.

1 2 3 4 Pagina successiva »