La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 4

Quarta parte del libro di Enrico Brizzi: la nascita di Mediaset come la conosciamo oggi

Il pentapartito governava, i panozzi cuccavano le sfitinzie, e le televisioni private continuavano a dipingere nuovi mondi dalle tinte ricchissime. Che fossero lo specchio del paese di allora non lo poteva più dire nessuno: ne erano semmai la prefigurazione.
La Rai descriveva il presente con tutte le pastoie retoriche del passato, mentre le reti private lanciavano mode, decretavano in perfetta autonomia il successo di cantanti, prodotti e stili di vita: più che il presente, riflettevano magicamente il futuro.
Per non sbagliare, il Silvio le aveva comprate tutte, o almeno le due concorrenti principali del suo Canale 5: Italia Uno nel 1983 e Rete Quattro – con Maurizio Costanzo in dote – l’anno successivo.
Nessun soggetto era in grado di esercitare una concorrenza così forte nei confronti della televisione di Stato, nonostante i vincoli tecnici – primo fra tutti il divieto di diretta – comuni a tutte le emittenti private.
A dire la verità, nessun soggetto privato avrebbe avuto i titoli per disporre d’un simile volume di fuoco mediatico ma, in assenza di regole in materia chiare e condivise, il governo di fatto si trovò a legiferare – non sarebbe stata l’ultima volta – ad personam.
Furono tre, i decreti-salva-Silvio approvati dal governo Craxi, disposizioni grazie alle quali il Nostro poté continuare a godere di una situazione di straordinario privilegio. Benché fosse risultato iscritto alla P2 – che nel suo «Piano di rinascita democratica» si proponeva letteralmente di «smantellare la Rai» – solo lui poté muovere guerra alle tre reti di Stato, forte di altrettanti canali.

Se il mondo delle televisioni private era stato fino ad allora un Far West, Canale 5, Italia Uno e Rete Quattro fecero il loro ingresso fra i pionieri solitari con la forza senza appello di tre reggimenti di giacche blu.
Le altre televisioni private si trovavano ormai all’angolo: la loro capacità d’incidere sul dibattito pubblico era ridotta a una voce fievole. I loro erano solo suggerimenti, ipotesi, mentre i programmi del Silvio e i suoi consigli per gli acquisti si facevano strada nel costume nazionale.
Bastava guardare cosa avveniva nella musica: la Rai, nel 1984, aveva rinunciato al visionario Mr. Fantasy, il programma di Carlo Massarini dedicato a videoarte e videoclip. Così, una generazione di rocker cresceva semiclandestinamente intorno ai programmi no-stop di Videomusic, captati solo in alcune regioni e non sempre al meglio; intanto, però, Deejay television irruppe in tutte le case con la forza dei progetti finanziati dai grandi network.
Del programma di Claudio Cecchetto, irradiato prima da Canale 5 e poi da Italia Uno, esistevano ampi riscontri nel mondo reale, dai tour della Deejay’s Gang – la bellissima Kay Rush, Sandy Marton da Ibiza, il jolly Gerry Scotti e gli emergenti Linus, Albertino, Fiorello e Amadeus – giù giù fino ai capi d’abbigliamento ufficiali, passando per gomme e quaderni disponibili in ogni cartoleria.
Tutto ciò che veniva promosso da Videomusic era indiriz­zato a una comunità ridotta e orgogliosa di carbonari del rock’ n’ roll; quel che arrivava da Deejay television era destinato al successo commerciale perché sarebbe piaciuto, più o meno, a tutti.
Da quelle parti vero e falso si mescolavano, ché con la potenza di fuoco garantita dal Silvio potevi far bere ai ragazzi ogni cosa, persino che Jovanotti fosse un credibile modello d’eleganza.
Ci cascò Iuri Giacobbi, che prese a mostrarsi in giro con una stella della Mercedes appesa alla spalla del giubbotto, le Adidas Top Ten slacciate e un berretto degli Yankees portato al contrario. «Sono un wild boy al passo coi tempi», si vantava.
«Pari uscito dalla televisione» fui costretto ad ammettere. «Ma lo stemma da spalla dove l’hai trovato?»
«Questo?» arrossì mentre indicava la stella a tre punte.
«Esattamente.»
«Che resti fra noi» si fece più vicino. «Sradicato di prepotenza dalla Mercedes di LucaPietro.»
«S’incazzerà a puntino, il signor Niccolis» calcolai a spanne.
«Peggio per lui e per quel paninaro fallito di suo figlio» annunciò Iuri. Poi controllò che nessuno ci guardasse, e aggiunse a mezza voce: «Dovrò pur farlo, qualcosa di selvaggio. Altrimenti che razza di wild boy sono?».
Dopo un sabato pomeriggio trascorso insieme a lui, consumando il lastricato dei portici di via Indipendenza a forza di vasche avanti e indietro, compresi che l’essenziale per essere wild boys era attaccare briga con altri wild boys, per ricavarne tipicamente minacce, sberle e scappellotti. Il divertimento era ridotto veramente al minimo, specie se la tua tribù era composta da due soli tredicenni: forse c’erano vie meno dolorose, per attirare l’attenzione delle ragazze.
Fatta eccezione per gli scapestrati a contratto della Deejay’s Gang, i ragazzi del Silvio mantenevano un certo stile.
I più promettenti conduttori di casa Fininvest erano ­­­guasconi ma educati, al passo coi tempi e insieme all’antica: studiati in ogni posa e teleguidati dalla regia per piacere a madri e figlie, ai giovani e alle nonne, imperversavano Gerry Scotti e Marco Columbro, già doppiatore del pupazzo Five, la mascotte di Canale 5.
Battute a profusione, Gerry e Marco, mai però una parola fuori posto. Tanto miele, poco pepe, e una continua, implicita, richiesta di benevolenza. Chi non li avrebbe voluti come amici, zii, fidanzati?
Che alcune trasmissioni Fininvest tentassero d’apparire rassicuranti era quasi una necessità: mai si era visto prima un programma che esponesse tante bellezze seminude come Drive in, né un quiz apertamente libertino come Il gioco delle coppie, condotto da Marco Predolin. Il moralismo italico delle sacrestie era sempre in agguato, pronto a tuonare contro chi regalasse gettoni d’oro o sfruttasse ai propri fini l’esposizione delle poppe altrui.
Ma come faceva il Silvio a resistere alle proteste quotidiane di prelati, presidi e pretori?
Perché  va ricordato: taluni, ignorando che un giorno il loro bersaglio sarebbe stato l’uomo più potente del paese, lo bollavano impunemente di immorale e diseducativo, e ne rimarcavano addirittura la presunta posizione delicatissima. (Delicatissima, a loro dire, per il semplice fatto di possedere tre emittenti private… Cos’erano, comunisti invidiosi?)
Vi furono pressioni e interferenze, inutile negarlo, eppure il Silvio tirò  dritto per la sua strada con la tenacia dei grandi capitani d’industria: per lui il lavoro era la cosa più importante, e Craxi gliene aveva appena garantito a non finire.


Sordo a maldicenze e gelosie, «quello di Milano 2» continuò senza paura a mettere sotto contratto i volti più noti della Rai.
Il signor Mike era migrato già nel 1982, Vianello e la Mondaini l’avevano fatto l’anno successivo per presentare Zig Zag, ma il vero annus horribilis della Rai fu il 1987.
Fu allora che crollarono le ultime certezze: se ne andò la Carrà, padrona di casa degli italiani col suo Pronto, Raffaella?, per trasferirsi a Fininvest con la sua erede Enrica Bonaccorti e, fatto vissuto come un autentico tradimento della patria, insieme a loro levò le tende Pippo Baudo.
Se anche il conduttore siciliano di Sanremo, Canzonissima e Domenica in era pronto a lasciare la vecchia strada per la nuova, significava che le vie del Silvio dovevano essere lastricate di oro massiccio.
Era un vero imprenditore televisivo, lui, ma non si dimenticava mai di essere italiano: la sua vera abilità era quella di ottenere il massimo non mettendo mai in gioco niente più del dovuto.
Per non pagare i diritti sul format originale di Wheel of fortune, padre riconosciuto o naturale di centinaia di telequiz in tutto il pianeta, il Silvio faceva allestire programmi simili ma non così tanto da violare il copyright: si mossero su questa linea sottile gli autori di Pentatlon, fra i quali il baffuto Ludovico Peregrini, il popolare «signor no» degli show precedenti.
(Che l’ultimo per la Rai si fosse chiamato Flash, e il primo su Canale 5 Superflash, è indicativo di come il Silvio ti facesse crescere sotto gli occhi di tutti; la forte assonanza fra i titoli di­mostra inoltre che in Fininvest si temevano forse gli avvocati americani di Wheel of fortune, ma pochissimo quelli romani della Rai.)
Fosse come fosse, ogni giovedì sera ci si sintonizzava sulle frequenze del benessere e dell’abbondanza: si partiva con una sigla a cartone animato, nella quale la caricatura robotizzata di Mike Bongiorno inseguiva un tedoforo con la fiamma olimpica.
Subito dopo appariva un’avveniristica scenografia comprensiva di postazioni trasparenti e pareti retroilluminate, capace di ricordare la scheda di una calcolatrice Texas Instruments precipitata dal terzo piano: faceva da cangiante sfondo alla figura del presentatore, questa volta in carne e ossa, incaricato di regalare milioni per conto del Silvio.
Poiché  le domande erano legate all’attualità, Bongiorno definiva lo show «settimanale di quiz e informazione»: poteva sembrare un tentativo per assottigliare il confine fra diretta e differita, fra il mondo della televisione giornalistica, chiamata ad essere sempre sul pezzo, e quello senza tempo dei quiz; Pentatlon rappresentava un’ibridazione nuova fra ciò che era la Rai – una tivù tenuta, almeno nominalmente, a dire sempre la verità – e il puro intrattenimento dei programmi che il signor Mike aveva condotto fin lì sulla Fininvest.
Lo spirito della televisione privata non si accontentava del salotto di Maurizio Costanzo: anche grazie a un quiz il Silvio poteva dire la sua, diffondere opinioni, fare informazione.
Che la delegasse a uno showman, assistito dal ventriloquo José Moreno con il suo Rockfeller, non scandalizzò nessuno, parve anzi simpatico e moderno.
Cominciò  così, fra giochi di dadi, bonus e scintillare d’oro, la lunga e acrobatica ascensione del primo uomo, diretto, in solitaria e senza scorte d’ossigeno, verso la vetta del Quarto potere.

Sempre nel 1987, il Silvio comprò una grande squadra semidecaduta come il Milan e la infarcì di campioni e buoni professionisti che non avrebbero quasi mai visto il campo, tanto per lasciare a secco la concorrenza; in breve costruì, investendo più d’ogni altro presidente, la squadra più vincente di fine millennio.
In un paese composto da trenta milioni di aspiranti commissari tecnici, chi capisce di calcio è apprezzato e chi sa vincere è tenuto in palmo di mano: lo scudetto di Sacchi e il «triennio d’oro» dei rossoneri a livello internazionale avrebbero consacrato il Silvio come presidente più vittorioso, in barba alla Juve, al Napoli di Maradona e all’Inter dei record.
Chi sembrava, allora, il Silvio? Un nuovo Agnelli con le televisioni al posto della Fiat, un Moratti senza petrolio, un Lauro senza flotta.
A ben vedere, però, la televisione influenzava il calcio ben più  delle Panda, della benzina o delle navi: da anni Valenti e De Laurentiis, Martellini e Ciotti lo raccontavano, lo portavano nelle case, ne facevano storia popolare e patrimonio comune.
Proprio per questo nessuno avrebbe osato contestare alla Rai il diritto primevo sulle trasmissioni legate alla serie A: sarebbe stato il colmo, che un presidente se la cantasse e se la suonasse da solo, con la sua squadra, i suoi giornalisti e le sue televisioni…
Invece i successivi trionfi rossoneri, guidati da Capello e celebrati da Pressing di Italia Uno la domenica sera, sarebbero stati il viatico del Silvio per la definitiva conquista del primato nazionale.

Riavvolgendo il nastro sul crepuscolo degli anni Ottanta, il Milan «olandese»  giocava un calcio nuovo, Columbro e Predolin avevano una lunga lista di ammiratrici e i socialisti, con i loro 11-12 e 13%, se la comandavano: la Dc aveva bisogno di loro come dell’ossigeno, e i piccoli alleati laici erano in posizione subordinata rispetto ad entrambi.
Il sistema della politica si autodesignava, autofinanziava e autocelebrava in faccia agli orfani di Berlinguer e agli esclusi dalle spartizioni, danzando fino all’alba sui brandelli della questione morale che il segretario del Pci aveva definito «prima ed essenziale» nella vita italiana, «perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico».
Parole recenti ma già fruste, almeno per Gianni De Michelis: nel suo faraonico staff pare non mancassero le signorine di incerta professionalità, e la sua passione per le discoteche lo portò a solcare ogni pista, tanto che nel 1988 avrebbe dato alle stampe un fondamentale testo per Mondadori. Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane, comprensivo di una prefazione dello sbarazzino presentatore di Smile e deputato Psi Virginio «Gerry» Scotti, resta una delle più chiare testimonianze di come e quando la politica, in Italia, ha rinunciato al suo ruolo guida sulle coscienze civili per saldarsi esplicitamente col mondo dello spettacolo.
Quale immenso potere stava raggiungendo, il mondo a colori della Fininvest, se era in grado di esprimere direttamente deputati a Montecitorio?
Va detto che c’era riuscito anche il meno esposto circus del porno, con l’elezione di Cicciolina per il Partito radicale e la conseguente fondazione, da parte della stessa Ilona Staller, del «Partito dell’Amore» – spunto geniale rielaborato in chiave castigata e strumentale dalla politica di oggi. I radicali, però, erano irriverenti e minoritari per Dna.
Invece il partito di Nenni e Pertini… Perché mai, dalle posizioni di governo, si affannava tanto a legittimare il proprietario di tre importanti televisioni private?
(Ma di cosa mai avevamo paura, noi paranoici di Sinistra?
La P2 era acqua passata, la sua tessera numero 1816 una fra le tante.
E poi era un privato imprenditore, il Silvio, mica un uomo pubblico.
A lui la politica non interessava.
E perché avrebbe dovuto sporcarcisi ulteriormente le mani, poi?
Era già ricco di suo; in Parlamento, al massimo, ci mandava Gerry Scotti.)