“Centralità, non centrismo”

Massimo Cacciari sull'Espresso spiega perché il PD deve allearsi con l'UdC

Vae victoribus”: questo i perdenti del 14 dicembre sperano di poter iscrivere sulle loro bandiere. Nobile massima, propria della vera politica: il difficile viene, infatti, per i “politici di vocazione”, dopo le vittorie, quando si tratta di risolvere con l’azione di governo i problemi e le contraddizioni che hanno generato le “guerre”. Peccato che da noi di politici di questo tipo non vi sia neppure più traccia, e che lo sforzo dei vincitori di turno si esaurisca il giorno dopo nel tirare avanti. Chi ha assistito al dibattito sulla fiducia, avrà avuto occasione più volte di rabbrividire di fronte allo spettacolo culturale offerto. Veniva in mente la battuta di Mark Twain:”Supponi di essere un idiota. Supponi di essere un membro del Congresso. No, mi sto ripetendo. Supponi semplicemente di essere un membro del Congresso”. Nessuna “tremenda” responsabilità, perciò, dei vincitori. Che traccheggeranno grazie magari a qualche nuovo acquisto, fino a quando non decideranno che è il momento giusto, per loro, di tornare a votare.

E “i vinti”? Nel Pd soffiano ancora venti di delirio. Chi ostenta supponente indifferenza. Chi accusa di aver inseguito Fini. Chi vuole l’Ulivo disastro-ter. Chi l’alleanza con Casini. Non si tratta che della fotografia del mancato Pd: le diverse correnti culturali-politiche che avrebbero dovuto trovare una nuova sintesi stanno lì, immobili nella loro configurazione passata, contrapposte le une alle altre. Un fallimento che tutti i leader cercano di coprire; e così, non venendo mai “lavorato”, il lutto blocca ogni disegno di qualche respiro. Il Pd nasce con vocazione esplicitamente maggioritaria. Come è concepibile sostenerla senza affermare nei fatti la propria centralità rispetto ai problemi delle riforme, della modernizzazione del Paese, delle nuove forme di lavoro, nella lotta a tutti i corporativismi? Centralità, non centrismo, come ho detto mille volte. E moderati, certo, anche, perché refrattari a ogni demagogia, ai sogni da comizio, alle ideologie in sedicesimo, e capaci di comprendere e corrispondere al modus, che significa l’ora, questa ora, questo tempo, e non quello dei padri e dei nonni, in tutti i suoi aspetti. Il Pd ha perduto la sua vocazione maggioritaria, perché nulla ha saputo elaborare in tal senso. Col 25 per cento non si è maggioranza con nessuna legge elettorale. Lo si può diventare con i Di Pietro e i Vendola? Liberi di provarci, ma è evidente che marciare in una tale direzione significherà perdere ogni contatto con quanto potrebbe maturare tra Fini, Casini, Rutelli e oltre. Sarebbe invece saggio scommettere con decisione sulla tenuta di chi ha rotto, in stagioni diverse, con Berlusconi, passando anche per la prova del 14 dicembre (dove il gruppo di Fini ha retto benissimo, per essere appena sorto e per le pressioni straordinarie di cui è stato bersaglio).

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