L’infiltrato dell’FBI nella moschea di Irvine

La storia, avvenuta in California, racconta bene parte delle attività segrete di antiterrorismo degli USA

Questa storia ha per protagonisti l’FBI, un ex falsario diventato spia — nome in codice “Oracolo” — e una moschea, e rischia di complicare ancora di più i già non semplici rapporti tra l’ente investigativo del dipartimento di stato degli Stati Uniti e la comunità musulmana americana.

In breve: dopo aver promesso fiducia e completa trasparenza agli imam della moschea di Irvine, in California, l’FBI ha piazzato nella stessa moschea una spia — dotata di microtelecamera nascosta in un bottone e microfono nelle chiavi — alla ricerca di potenziali terroristi tra i fedeli del luogo di preghiera. È finita che la spia ha accusato di attività terroristiche uno dei frequentatori, che poi è stato giudicato innocente. È che sempre la spia è stata accusata e denunciata a sua volta dai fedeli della moschea, per istigazione al terrorismo. In seguito alla denuncia l’FBI ha abbandonato l’uomo, che ora ha raccontato tutto in un’intervista al Washington Post. Ora la comunità musulmana si sente tradita e minaccia di interrompere le collaborazioni con l’FBI. La storia è interessante, dice molto delle operazioni segrete di antiterrorismo degli Stati Uniti, e vale la pena raccontarla meglio.

Tutto inizia nel 2003, quando Craig Monteilh, dopo aver scontato una condanna per falsificazione di banconote, diventa un informatore. Prima fa l’infiltrato nelle bande di narcotrafficanti per la polizia locale — «era molto emozionante, mi sentivo un camaleonte» — poi, tre anni dopo, viene arruolato dall’FBI, che lo avvicina in un caffè Starbucks e gli propone di lavorare come informatore sotto copertura nelle moschee. Da quel giorno diventa Farouk al-Aziz, un francosiriano alla ricerca delle sue radici islamiche. Nome in codice, “Oracolo”.

Viene mandato come infiltrato nella moschea di Irvine, nella California del sud, dove vivono circa mezzo milione di musulmani. Solo due mesi prima dell’arrivo di Monteilh, il direttore del dipartimento dell’FBI di Los Angeles J. Stephen Tidwell aveva parlato con i fedeli della mochea, rassicurandoli sulla loro collaborazione volta a combattere il terrorismo: «Se verremo ad assistere alle vostre funzioni, ve lo diremo. Ve lo diremo perché non vogliamo pensiate di essere sorvegliati. Verremmo solo per imparare». Il discorso viene ripreso in un video.

Monteilh presta giuramento di fede alla moschea e, secondo le testimonianze degli altri frequentatori, in dieci mesi diventa ossessionato dalla religione islamica. Abbandona i suoi vestiti occidentali per la kippar e i sandali, partecipa alle funzioni cinque volte al giorno e arriva ben prima dell’orario di apertura della moschea, le cinque di mattina. Come poi racconterà, appuntarsi chi apre la moschea ogni giorno è una delle istruzioni dell’FBI, insieme, tra gli altri, al consiglio di uscire con donne musulmane per ricavarne informazioni.

I funzionari della moschea iniziano a notare comportamenti strani di Monteilh, che spesso dimentica le chiavi in giro. Nel telecomando dell’antifurto dell’auto c’è installato un microfono, che la spia usa per registrare le conversazioni in moschea, nelle case degli altri fedeli, nella palestra che frequentano insieme. Monteilh — o, meglio, Al-Aziz — inizia a cercare risultati con più insistenza e i frequentatori iniziano a insospettirsi e ad avere paura. «È bello che siate pronti per la guerra santa», dice Monteilh a uno dei fedeli.

Nel maggio 2007 ottiene i primi, presunti, risultati. Monteilh dice all’FBI di aver registrato una conversazione con Ahmadullah Sais Niazi, un professore afghano, che sarebbe d’accordo a far esplodere un edificio in nome dell’Islam. Stando alle loro versioni, a questo punto parte un doppio doppio gioco: Niazi, con la collaborazione di un altro fedele, continua a contattare Monteilh per portare avanti al piano, ma — come affermerà poi — solo per accertarsi che l’uomo sia una minaccia, un potenziale terrorista. Monteilh fa lo stesso: istiga Niazi per dimostrare all’FBI che è un potenziale terrorista.

Il direttore del consiglio di Los Angeles per le relazioni tra America e Islam Hussam Ayloush, informato dei fatti, denuncia l’infiltrato dell’FBI all’FBI. Che non prende iniziative nei confronti dell’uomo, la cui missione però sta ormai collassando. La moschea agisce da sola: va dalla Corte Superiore di Orange County e ottiene un provvedimento restrittivo per Al-Aziz. A questo punto, secondo le parole di Monteilh, l’FBI lo abbandona. Lui minaccia di raccontare la storia alla stampa e una supervisore dell’FBI minaccia di arrestarlo; secondo la dichiarazione dell’ex spia, la donna gli spiega che “se rivelasse la sua identità ai media rischierebbe di distruggere per sempre i rapporti tra l’FBI e la comunità musulmana”. L’FBI si è in seguito rifiutata di commentare queste dichiarazioni.

Nell’ottobre del 2007 Monteilh incontra ancora gli agenti dell’FBI, con cui firma un accordo di non divulgazione di informazioni in cambio di 25mila dollari in contanti. Ma solo due mesi dopo, a dicembre, viene arrestato per furto e finisce in prigione per sedici mesi. A gennaio 2008 denuncia l’FBI per averlo incastrato e aver permesso che il suo passato di informatore venisse reso noto in carcere, dove viene accoltellato. L’FBI nega e viene giudicata innocente in primo grado. Un giudice permette però a Monteilh di ricorrere in appello, e la causa è ancora in corso.

Le cose si complicano ancora. Nel febbraio 2009 finisce in tribunale anche Niazi, per le accuse di terrorismo che gli aveva mosso Monteilh. Nel suo computer vengono effettivamente trovati dei documenti che fanno riferimento alla guerra santa e tracce di pagamenti a un presunto collaboratore di Al Qaida. Monteilh, però, invece di confermare le sue accuse, contatta gli avvocati di Niazi e racconta che l’FBI lo avrebbe spinto a intrappolarlo. Un anno e mezzo dopo, lo scorso 30 settembre, i procuratori e il giudice chiudono il caso di Niazi, che viene considerato innocente. Monteilh racconta di essersi scusato con tutti i fedeli della moschea, di essersi pentito del suo ruolo nell’accusa a Niazi e di essere felice che la causa si sia conclusa con un nulla di fatto.

Qualche giorno fa, durante il sermone del venerdì, davanti a più di 200 fedeli l’imam della moschea di Irvine ha dato loro un consiglio: «se un agente dell’FBI si avvicina e vi dice “Siete in arresto”, pregate Allah, poi chiamate un avvocato”. Nonostante il sostegno immutato alle attività antiterroriste, ora i fedeli si sentono traditi dall’FBI. «Se l’FBI vuole la comunità musulmana come partner non può investigare su di noi alle nostre spalle», dice Kurdi, uno studente.