Per secoli i caratteri di stampa sono stati la tecnologia più importante del mondo editoriale, la cui conoscenza e il gusto nell’adoperarli erano riservati a pochi esperti artigiani. Oggi, che tutti in teoria possiamo essere oltre che scrittori anche tipografi ed editori di noi stessi, in realtà non ne conosciamo neanche l’abc.
Un tempo, dopo la calligrafia, anche la stampa era diventata un’arte. È iniziato tutto con la stampa moderna. Prima grazie ai coreani nel 1234 e poi grazie a Johann Gutenberg nel 1455, che ha creato la stampa basata su singole lettere mobili (“caratteri”) allineate su righe e rimovibili a seconda della bisogna, è finita l’era della scrittura a mano o delle stampe ed è cominciata quella della stampa moderna. Il cambiamento è merito di una singola innovazione: il carattere mobile in metallo.
In pratica: si organizzava su un telaio la pagina, riga per riga, con i caratteri fusi con una lega di antimonio, piombo e stagno, e poi si stampavano (“tiravano”) le copie della singola pagina con una sorta di pressa a vite, come quelle usate per schiacciare l’uva e produrre il vino. Poi, si ripeteva l’operazione con la pagina successiva.
Il segreto dei primi tipografi era la bellezza dei caratteri di stampa utilizzati: lo stile (normale, corsivo, grassetto, forte etc) e la dimensione (otto, nove, dieci punti tipografici o più). Ognuno veniva studiato, disegnato e fuso da altri artigiani, su richiesta e in quantità limitate.
Le singole fusioni dei caratteri che componevano un set completo (in cui erano necessarie un certo numero di ripetizioni di ciascuna vocale e consonante) erano raccolte in valigette chiamate “polizze”. Il termine deriva da un uso settoriale del termine “polizza” (in italiano la polizza è una scrittura privata con l’obbligo di pagamento di una data somma o di consegna di una data quantità di un bene). In tipografia con polizza s’intendeva la famiglia di un carattere (glifo) e l’elenco del quantitativo di caratteri e segni tipografici di misure e stili diversi da ordinare alla fonderia per avere il set tipografico completo. In pratica, si ordinava una polizza di Helvetica, per esempio, composta da alcune centinaia di lettere diverse, con dimensioni e stili diversi, a seconda delle bisogne.
In francese si dice – e si continua a dire – “police d’écriture” per indicare il set di caratteri (glyphes) di una stessa famiglia tipografica, cioè lo stesso “tipo di caratteri”.
Gli americani hanno subito fatto confusione. Una polizza tipografica in inglese si chiama “typeface”, ma oggi viene spesso confusa con “font” (il particolare insieme di caratteri di una stessa dimensione e stile), per un prestito linguistico dal francese medioevale: “fonte” inteso come “un qualcosa che è stato fuso” (dal latino “fundere” ). Nelle tipografie di una volta, diciamo fino a venticinque-trent’anni fa, si parlava delle “polizze” e poi delle singole “fonti”, molto spesso al femminile (“la fonte”), come vedremo poi.
C’è un altro e più pressante problema da spiegare, infatti. Come mai in italiano corrente non si parla di “polizze” se non tra i pochi tipografi sopravvissuti alla digitalizzazione, ma sempre di font?
La storia è semplice e c’è anche un “colpevole”, di cui però non sappiamo il nome. Un bel giorno di venticinque-trent’anni fa, infatti, un signore di cui la storia non ci ha tramandato il nome, si è trovato di fronte un problema: doveva tradurre dall’inglese le stringhe di testo per la localizzazione di un nuovo sistema operativo. E doveva farlo di corsa perché doveva essere tutto pronto entro metà 1984. Si trattava del Macintosh, il nuovo computer creato da Apple, e bisognava tradurre in italiano una serie di termini alquanto bizzarri (“File”, “Edit”, “Copy”, “Paste” e soprattutto “Font”, i set di caratteri che erano contenuti dentro una “valigetta” digitale).
Già gli informatici americani avevano fatto una scelta riduzionista e deciso che il termine corretto era “font”, non typeface, e neanche l’alternativa “fount”, anch’essa molto usata nelle tipografie d’oltreoceano. Il nostro traduttore probabilmente ignorava buona parte di questa storia e comunque decise di non decidere: il termine non si prestava facile all’orecchio di chi non lavorasse immerso nel gergo dei tipografi americani, e quindi lasciò tutto così com’era. Font divenne così font. Dopotutto, anche computer è una parola che deriva dall’inglese, pur esistendo più di un equivalente in italiano.
Il nostro uomo scelse anche di risolvere nel modo più semplice il problema (da lui ignorato) del genere della parola. Font in inglese è neutro e l’italiano solitamente introduce nella lingua i termini neutri con il maschile. Così dunque è stato a partire da fine anni Ottanta anche per font, nonostante ci fossero alcuni secoli di tradizione al femminile nelle tipografie: le font, le fonti, le polizze.