Viaggiare da grassi

Un viaggiatore racconta sul New York Times la sua vita da obeso tra umiliazioni ed episodi tragicomici

L’obesità è un problema che interessa buona parte dei paesi occidentali e negli Stati Uniti sta diventando un’emergenza sociale, tanto da aver spinto la first lady Michelle Obama a lanciare un piano per incentivare stili di vita più sani, specialmente tra gli adolescenti. Rob Goldstone è alto un metro e settanta, pesa 130 chili e ha deciso di raccontare sul New York Times le proprie esperienze quando è costretto a muoversi da casa per affrontare lunghi viaggi, specialmente in aeroplano. Il suo racconto aiuta a capire quanto l’obesità possa essere invalidante e sia socialmente poco accettata.

Appena salgo a bordo di un aereo, la prima cosa che faccio è andare dritto da uno degli assistenti di volo per dar vita a una routine che è cambiata poco negli ultimi 20 anni. Con discrezione, indico il mio stomaco, faccio un sorrisetto e aspetto un cenno del capo di risposta. Quando sono seduto, mi preparo per il “passaggio di palla”. Senza creare alcun contatto visivo, l’assistente di volo si avvicina e, come uno spacciatore, lascia cadere rapidamente una piccola borsa nel palmo della mia mano: una estensione per la cintura di sicurezza.

In realtà, gli imbarazzi per Goldstone iniziano molto prima di imbarcarsi, quando si tratta di scegliere il posto in aereo. Molte compagnie obbligano i clienti che non possono stare in un unico sedile con il bracciolo abbassato a comprare due posti contigui. Altre società oppongono ancora altre limitazioni, vietando per esempio agli obesi di prenotare i posti vicini alle uscite di sicurezza.

Anche durante i controlli di sicurezza in aeroporto la grande stazza non aiuta. I metal detector si mettono a suonare non per la presenza di oggetti metallici, ma perché chi è sovrappeso spesso passa a fatica all’interno del dispositivo, urtando le pareti e innescando così l’allarme. Gli aeroporti si somigliano un po’ tutti e anche i problemi cui Goldstone deve andare incontro:

«Quanti chili pesa?» mi ha chiesto un funzionario della dogana all’aeroporto Ho Chi Minh quando sono andato in Vietnam qualche anno fa. «Questa domanda si trova davvero sul modulo?» le ho risposto, chiaramente innervosito. Sorridendomi, mi ha detto di no. Era solamente curiosa. Dopo avermi lanciato un’occhiata, ha fatto una breve risata e mi ha suggerito di evitare i risciò trainati a mano, perché il mio peso li avrebbe potuti far ribaltare. «Benvenuto in Vietnam» mi ha poi detto, mentre mi allontanavo borbottando.

A Rio de Janeiro le cose non sono andate meglio sui mezzi del trasporto pubblico. Per poter salire sugli autobus bisogna passare attraverso uno stretto tornello collocato all’ingresso del mezzo e a bordo non ci sono sempre sedili sufficientemente grandi per ospitare i passeggeri sovrappeso. In Cina, per Goldstone il problema ha assunto aspetti maggiormente culturali e folcloristici:

Ho notato che alcuni ragazzini mi correvano incontro e mi toccavano la pancia prima di scappare di corsa ridacchiando. Lo facevano in continuazione, di giorno e di notte, toccando il mio ombelico. Nel corso di una passeggiata attraverso la Città Proibita, una guida locale mi ha spiegato che cosa stesse accadendo. «I ragazzini pensano che lei sia Buddha, mi ha detto, e quindi le toccano la pancia per avere fortuna. Lei è un Buddha felice». In un negozietto di souvenir, la mia guida mi ha mostrato una statua di un Buddha felice. A parte la testa rasata e gli orecchini a forma di anello, il Buddha felice e io saremmo potuti essere fratelli.

Certo, dimagrire potrebbe essere una soluzione per buona parte di questi problemi, ma il problema dell’obesità non sarà certo risolto in tempi brevi e coinvolge milioni di persone, che devono affrontare numerose difficoltà ogni giorno.

In Thailandia il mio imbarazzo è stati causato da un sarto che mi aveva detto di aver utilizzato un tessuto “speciale” per farmi una camicia su misura. Solo quando ero seduto nella lobby del famoso Oriental Hotel e ho notato le occhiate dei clienti ho capito che la mia camicia era stata realizzata con lo stesso materiale usato per foderare gli arredi dell’albergo.