La Lacoste dei padri

Giorgio Vasta si chiede su Repubblica se i quarantenni italiani siano ancora in tempo a costruire una cultura loro

Un piccolo dibattito che è facile immaginare perdente sta nascendo sulle pagine culturali dei quotidiani sul ruolo degli intellettuali trenta-quarantenni in Italia, o persino se esista davvero una simile categoria. Oggi Giorgio Vasta scrive su Repubblica un’analisi chiara del problema della sua generazione propone un ultimo tentativo di riscatto.

Parafrasando un successo degli Skiantos di una ventina d´anni fa potremmo dire: “Non c’è gusto in Italia ad avere quarant’anni”. Nel senso che se avere quarant´anni significa, mutata la percezione sociale delle età, penetrare finalmente nel tempo in cui ci si assume il compito di intervenire sulle cose, la sensazione prevalente è che poco o nulla di ciò stia accadendo e che i quarantenni siano percepiti, e si percepiscano, come abusivi che si aggirano clandestinamente per il paese.
La consapevolezza di questo stallo purgatoriale è condivisa da molti e di recente Christian Raimo ha ripreso il discorso su la Domenica del Sole 24 ore. Nel suo pezzo si concentra lucidamente sul “vuoto” toccato in sorte a chi – “storici, critici, scrittori, giornalisti” – è nato in Italia intorno agli anni Settanta e si trova oggi a sperimentare «il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l’impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile». In sintesi, e brutalmente, la consapevolezza della propria ininfluenza.
Questo mi ha fatto tornare in mente un racconto di Raymond Carver che si intitola Vicini, quello nel quale i coniugi Miller accettano di badare alla casa degli Stone, una coppia di vicini di pianerottolo partiti per un viaggio. I Miller danno da mangiare al gatto degli Stone, bagnano le piante, controllano che sia tutto a posto. Senza rendersene conto, prendersi cura della casa dei vicini diventa per i Miller indispensabile, un modo per recuperare una vitalità perduta. Fino a quando, inavvertitamente, i Miller si chiudono fuori da casa Stone, ed è la fine. La vita degli altri non li nutre più. Restano soli sul pianerottolo, immersi in un vuoto insostenibile.
Eppure, per quanto doloroso possa essere, a questo vuoto – che nella misura in cui è nostalgia di un altro presente mi sembra somigliare a quello descritto da Raimo – non si può essere subalterni; subirlo, trascorrere gli anni a rimpiangere un pieno mancato, una densità (culturale, sociale, politica – umana) che si ritiene ci sia stata negata, vuol dire fare, in tutta buona fede, manutenzione di una posizione infeconda, utile al rimpianto e a perpetuare una prospettiva dipendente. Vuol dire restarsene addossati a quella porta, l´orecchio schiacciato contro il legno in cerca di un respiro, di un bisbiglio: pretendere di parassitare un codice concluso. La vita degli altri è, appunto, degli altri.

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