La storia nei film di Venezia

Cos'hanno in comune il film di Schnabel e quello di Martone, e altre storie di eroi

di Filippomaria Pontani

Alla Mostra del Cinema ho visto alcuni dei film in concorso (appartengo dunque alla prima delle due schiere individuate da Mereghetti). Per quel che ho visto, ho trovato una rassegna noiosetta, non priva di pellicole godibili ma talvolta incline, anche in alcuni titoli premiati, a stucchevoli “sperimentazioni” di scarsa presa, o a storielle di piccolo cabotaggio; del resto, dinanzi a una giuria presieduta dal più solerte e geniale de-strutturatore del “film serio”, Quentin Tarantino, era quasi naturale che al genere epico-storico fosse dedicato uno spazio modesto. Tuttavia, oltre all’assai apprezzato dramma cinese La fossa di Wang Bing, dedicato a un gruppo di prigionieri politici confinati per rieducazione nel deserto del Gobi negli anni ’60, due pellicole hanno avuto l’ardire di raccontare vicende personali calate all’interno di lunghi frammenti della “grande Storia”, in due ambiti cronologici e geografici assai diversi: intendo Miral di Julian Schnabel, che ripercorre la storia del conflitto israelo-palestinese, e Noi credevamo di Mario Martone, dedicato al nostro Risorgimento.

Non ho la competenza per valutare questi prodotti sul piano strettamente artistico. Del primo si può facilmente additare (specie in confronto con film israeliani e libanesi meno ambiziosi ma forse proprio per questo più veri) la schematicità della vicenda, la scarsa profondità politica (a tratti: la banalità) con cui racconta l’annoso scontro fra le due popolazioni, e un certo compiacimento nell’indugiare sulla bellissima protagonista (Freida Pinto, star di Il milionario) o nell’uso dello sfocato e del dettaglio decorativo “astratto” quando viene rievocata la storia della madre – penso ai ciondoli d’oro della cintura che si dimenano nella danza del ventre, o alla barra del letto che sale e scende a tutto schermo mentre lei viene violentata dal padre. Si tratta di caratteristiche del resto in larga parte comprensibili per chi ponga mente alla carriera “principale” di Schnabel, che non è un regista di formazione ma un artista, aduso a raffinate creazioni quali anzitutto i Plate Paintings, acuti ritratti costruiti con frammenti di ceramica.

Al film di Martone, invece, manca a tratti il ritmo (tre ore e mezza sono troppe anche per un affresco di ampio respiro: il formato ideale sarebbe una serie di due episodi per la tv), talvolta la sobrietà (le musiche liriche ottocentesche possono appesantire il dettato), e – più raramente – la chiarezza nelle suture narrative per chi non ricordi bene le tappe storiche dai propri studi liceali. Inoltre, in ambedue i film non a tutti sono piaciuti gli attori, anche se in specie il cast italiano (fra cui spiccano, fra le star, Toni Servillo come Mazzini e Luca Barbareschi come Antonio Gallenga) non ha davvero demeritato: piuttosto, si può osservare che a più riprese i protagonisti (in specie quelli femminili, Miral e Cristina di Belgiojoso), appaiono impegnati di punto in bianco in forbiti dialoghi teorici sugli sviluppi storici in corso, in modo poco congruo al contesto e al vivo sviluppo della narrazione.

Ma al di là di questi difetti, e di altri che i recensori più severi troveranno (si spera che i critici di Martone non cadano nei luoghi comuni di Gabriele Salvatores), i due film denotano a mio parere un’anima comune. Non vorrei insistere troppo sul fatto – forse tuttavia rilevante – che entrambi sono liberamente tratti da romanzi scritti da donne, rispettivamente l’autobiografia di Rula Jebreal (compagna di Schnabel, presente a Venezia e in alcune scene del film medesimo) e l’omonimo Noi credevamo di Anna Banti, già fortunata ispiratrice in Laguna del libro che vinse il Premio Strega 2009 (Stabat mater di Tiziano Scarpa): per quanto entrambe rappresentative – ciascuna per la propria epoca, dunque in modo assai diverso – la Jebreal e la Banti hanno poco da spartire, se non forse una sensibilità particolare, che si traduce nell’omaggio alla spesso dimenticata contessa di Belgiojoso (nel film, una somigliantissima Francesca Inaudi), e soprattutto a Hind Husseini, la leggendaria fondatrice di un orfanotrofio nel cuore di Gerusalemme (interpretata dall’eccezionale Hiam Abbass, protagonista della Sposa siriana e del Giardino dei limoni).

Sul piano formale, entrambi i film articolano in diversi “quadri” (chiaramente marcati tramite la sovrimpressione dell’anno) lo sviluppo di una vicenda lunga e controversa, e intersecano alla scansione cronologica quella “per personaggi”, seguono cioè le sorti dei diversi protagonisti, rendendo ciascuno di essi eponimo di una sezione della storia. Forse non è solo questione di forma: in un racconto epico, porre una “data d’inizio” (nel caso di Schnabel ovviamente il 1948; nel caso di Martone l’esordio delle insurrezioni carbonare degli anni ’20) comporta la scelta di una periodizzazione non solo della vicenda personale, ma anche di quella collettiva – e si potrebbe sostenere a buon diritto che i periodi cominciati con gli incipit dei due film non siano ancora davvero finiti, né in un caso né nell’altro. Analogamente, seguire le peripezie di tre generazioni, come in Miral, o le vicissitudini dei moti italiani dalle prime rivolte mazziniane a Felice Orsini a Porta Pia, vuol dire saper discernere nel lasso di tempo considerato vittorie e sconfitte, continuità e discontinuità, percorsi fortunati e binari morti.

Oggi il collegio per orfani di Hind Husseini, Dar-Al-Tifel, è stato decimato dalla nascita zoppa di un embrionale stato palestinese (Gaza e Ramallah), le corse di Miral lungo la Via Dolorosa attirerebbero l’attenzione di manipoli di soldati e di un numero crescente di ebrei ortodossi, mentre suo padre – imam della gloriosa moschea di Al-Aqsa – lavorerebbe in una Spianata blindata e in un omphalòs religioso di fatto precluso ai non fedeli; e l’American Colony non ospita più dialoghi di pace ma danarosi turisti in cerca di lusso ed emozioni. In questo senso, e in molti altri, la situazione è oggettivamente peggiorata rispetto agli ultimi fotogrammi, e non è per nulla detto che oggi l’innamorato della protagonista, già facinoroso attivista dell’OLP, condividerebbe la prospettiva di una pace duratura con Israele – forse in questo senso si possono comprendere le critiche israeliane al tenore filopalestinese del film, che omette le degenerazioni dell’Intifada e ogni riferimento all’ondata dei kamikaze, e si concentra (con pieno diritto, peraltro) sulle angherie inferte alla popolazione araba dei centri urbani, o sulle violenze dei militari nelle carceri.

Oggi – senza tema di retorica – la corruzione, il trasformismo, la slealtà, il clientelismo che Martone pone al cuore della sua lettura del Risorgimento “sabaudo”, sono ancora ben radicati nel nostro Paese: chi ha memoria di Luigi Lo Cascio come protagonista de La meglio gioventù (e in particolare delle illusioni, degli errori e delle amarezze del periodo torinese, quello dei moti studenteschi e del terrorismo) proverà uno straniante senso di déjà-vu nel ritrovare il medesimo attore, sempre a Torino, in preda a frustrazioni non troppo dissimili circa un secolo avanti, dapprima al seguito di Mazzini e infine come desolato visitatore di un Parlamento vuoto nel quale echeggiano le parole del terrorista ripulito Francesco Crispi. Pervadono il film violenze e trame sbagliate, l’attesa costante della nascita di una patria, la speranza nell’aiuto decisivo di chi per troppo tempo era stato ostile: il ruolo dei Piemontesi nelle scene finali ripropone tutte le più tetre immagini storiografiche del Risorgimento come “conquista regia”.

Nel film prendono vita fra gli altri Carlo Poerio, Sigismondo Castromediano, la già ricordata Cristina di Belgioioso, e Giuseppe Mazzini a Ginevra, a Londra e in punto di morte, tutti personaggi che hanno preciso – ancorché per lo più marmoreo – riscontro nel nostro tessuto culturale (le poesie di Alessandro Poerio, fratello di Carlo; la Spigolatrice di Sapri etc.) e urbano (il Castello di Belgioioso; il Museo archeologico di Lecce; la Domus Mazziniana di Pisa). Ma forse nulla documenta l’attualità del racconto quanto la lunga scena in cui il protagonista Domenico (Lo Cascio) e il giovane garibaldino Saverio (Michele Riondino) si accampano per la notte nei pressi di Melito, dove di lì a poco sbarcheranno i garibaldini in arrivo dalla Sicilia: con quello che è un palese anacronismo (e che infatti alcuni critici hanno prontamente denunciato), i due trovano rifugio sotto una costruzione di cemento armato non finita, con i fili di metallo all’aria, pronti per i pilastri del secondo piano, come in tante case del Sud (e, oserei dire, del Medio Oriente). Melito è l’attuale Melito Porto Salvo, profonda terra di ‘ndrangheta (vi fu arrestato mesi fa il figlio del Tiradrittu), di speculazione edilizia, di morte. Quale immagine migliore per allacciare il racconto al nostro tempo?

Ma c’è una ragione più profonda per la quale entrambi questi film parlano di noi. Quasi tutte le storie di questo mondo hanno un eroe, o – nel caso di quelle ambiziose – addirittura più di uno. In queste due storie la vera analogia sta nel fatto che i protagonisti, nella loro prima gioventù, rinunciano ai loro cospicui privilegi per seguire degli ideali. Ideali semplici, utopistici, che perseguiranno in modo scomposto o inefficace, esponendo sé ed altri al pericolo, confondendo la teoria con la prassi, o battendo strade che essi stessi riconosceranno a posteriori come culs-de-sac – in fondo poco importa, a quel punto, che Miral “si salvi” venendo in Italia e continuando a credere nella pace della sua terra e che invece Martone cali il sipario su un Domenico, e su un’Italia, irrimediabilmente sconsolati.

In questi due film si vedono giovani uomini e giovani donne che voltano le spalle a una sicura tranquillità (la bambagia di una scuola d’élite nel cuore di Gerusalemme; il ricco latifondo del sud) e, pur tra mille debolezze, si mettono in gioco al rischio della vita. Il fatto che non si tratti di storie fittizie, bensì – con tutte le cautele – di vicende realmente accadute, rende più impellente l’interrogativo sul nostro presente, e pressoché inevitabile il confronto con una temperie, quella del nostro Occidente, in cui simili slanci, e soprattutto la disponibilità a rinunciare alle posizioni di vantaggio, sono sempre più rari. Se queste riflessioni vi sembrano tratte da un’omelia, finirò con degli exempla, come vuole la tradizione del sermone mediolatino: in maniera certamente casuale, la presentazione del film di Schnabel ha coinciso con l’avvio di nuovi negoziati tra Israeliani e Palestinesi, quella del film di Martone con l’omicidio camorristico di Angelo Vassallo, sindaco di quel medesimo Cilento che è il luogo d’origine dei protagonisti e della storia intera.

Sventurati i Paesi che hanno bisogno di eroi, sembrava dire domenica una solatìa Venezia largamente punteggiata di bandiere italiane esposte dai tanti cittadini ostili agli annuali proclami leghisti di Riva dei Sette Martiri, giusto di fronte al Lido. Forse anche film come questi possono instillare non certo l’eroismo, ma almeno la corretta valutazione degli atti eroici: per esempio ricordarci per quali canali stretti sono passate la faida più trista del Medio Oriente, o le imprese del nostro Risorgimento. Ma non solo: non molti ricordano che là dove si erge annualmente il palco dei proclami di Umberto Bossi, il 3 agosto 1944 i Tedeschi fucilarono sette Resistenti come rappresaglia per la morte (che poi si scoprì accidentale) di un loro soldato: i cadaveri furono lasciati per giorni a titolo di monito, proprio come le teste dei primi patrioti, infilzate sulle picche borboniche nelle prime scene di “Noi credevamo”.

Quando i martiri vanno a dormire, li sveglio per proteggerli dalle prefiche.

Dico loro: “Passate un buon mattino a casa, una casa di nuvole e alberi, un miraggio d’acqua”.

Mi compiaccio della loro integrità dalle ferite, della generosità del mattatoio.

Prendo tempo perché essi ne prendano da me. Siamo tutti martiri?

Sussurro: “Amici, almeno conservateci un muro per i fili della biancheria, e una notte per le canzoni”.

Appenderò i vostri nomi dovunque vorrete, dunque andate a dormire. Dormite sul pergolato di quella vite acerba.

Proteggerò i vostri sogni dai coltelli delle vostre guardie, dalla rivolta

delle scritture stesse contro i loro profeti.

Quando andrete a letto stasera, diventate una canzone per chi non ha canzoni.

Dico: “Passate un buon mattino, una casa portata sul dorso di un cavallo selvaggio”.

Poi sussurro: “Amici, non diventate mai come noi, un patibolo travestito”.

(Mahmoud Darwish)