Solo non si vedono i due leocorni

L'Economist racconta la difficile conservazione degli animali selvatici in Africa e immagina un futuro delle riserve naturali in mano ai privati

di Emanuele Menietti

In tutto il pianeta ci sono solamente otto esemplari di rinoceronte bianco settentrionale ancora in vita. Il conto è facile da fare perché sono tutti animali in cattività, gli esemplari al di fuori degli zoo non vengono avvistati da anni e secondo gli esperti sono quasi certamente tutti morti. Quattro rinoceronti bianchi settentrionali sono stati riportati in Africa da uno zoo della Repubblica Ceca con la speranza di allontanare il rischio dell’estinzione della specie. Provati da anni in cattività, gli animali si sono ripresi rapidamente una volta nel loro habitat naturale, ma il loro stato di buona salute potrebbe non essere sufficiente per salvare la specie.

L’unica soluzione praticabile per evitare l’estinzione sembra essere quella di incrociare il rinoceronte bianco settentrionale con quello meridionale, che conta una decina di migliaia di esemplari. La sottospecie settentrionale potrebbe essere così salva, ma si modificherebbe sensibilmente una specie rimasta probabilmente isolata dagli altri tipi di rinoceronte per milioni di anni. Nei primi del Novecento, nell’area orientale dell’Africa vivevano circa 300mila rinoceronti, ora si stima ce ne siano appena duemila. La colpa della netta riduzione di esemplari è dell’uomo ed è di natura economica: il corno del rinoceronte è stato per anni molto ricercato non solo per scopi ornamentali, ma anche per la medicina.

In Cina, un corno di rinoceronte ha più valore dell’oro. L’escrescenza che cresce sul muso di questi animali viene polverizzata e utilizzata per la preparazione di alcuni composti della medicina tradizionale cinese. Per precauzione, i corni dei quattro rinoceronti bianchi provenienti dalla Repubblica Ceca e ospitati nella riserva di Ol Pejeta in Kenya sono stati limati per allontanare il pericolo del bracconaggio. Al chilo la polvere di corno di rinoceronte può arrivare a costare 35mila dollari, un grande affare per i bracconieri.

La storia del rinoceronte bianco è solo uno degli esempi dei falliti tentativi di preservare numerose specie animali in Africa, come spiega in un lungo articolo l’Economist.

Una recente ricerca della London Zoological Society e il programma per l’ambiente delle Nazioni Unite sostiene che la popolazione dei grandi animali nei parchi nazionali africani (esclusi gli elefanti e i rinoceronti) è diminuita del 59% dal 1970. Il bracconaggio per avere la carne è solo una parte del problema, poche persone si mangiano le zebre. Il vero problema è dovuto all’espansione degli insediamenti umani.

L’Africa non è densamente popolata e i livelli di inquinamento sono sostanzialmente trascurabili, specie se confrontati con quelli occidentali: una tonnellata di anidride carbonica per africano rispetto alle 20 prodotte procapite negli Stati Uniti. In alcune zone dell’Africa, però, il problema dell’inquinamento c’è eccome: inefficienza e scarsa conoscenza delle risorse sostenibili mettono in crisi gli ecosistemi, complicando la vita a numerose specie di animali. Le popolazioni locali sfruttano i terreni più che possono, poi quando sono esausti si spostano e ricominciano bruciando alberi, prosciugando le fonti d’acqua e utilizzando prodotti inquinanti.

Gli animali come i grandi felini patiscono la progressiva riduzione dei loro territori di caccia e la mancanza di risorse per la loro sopravvivenza. Il numero di leoni in Africa secondo alcuni ricercatori è passato dai 400mila esemplari di metà Novecento agli attuali 20mila. A questo ritmo i leoni potrebbero sparire dal pianeta entro il 2020. In alcune riserve questi felini riescono a ricreare famiglie numerose, ma le cose potrebbero peggiorare nel corso dei prossimi anni con il costante aumento della popolazione e degli insediamenti umani.

Secondo alcuni economisti, per preservare la biodiversità in Africa ci si dovrebbe affidare con maggiore convinzione ai privati, che avrebbero le capacità di identificare gli effettivi vantaggi economici della preservazione dell’ambiente. Per Wolf Krug, un economista tedesco che da tempo si occupa del problema, le associazioni a tutela dell’ambiente dovrebbero rivedere le loro campagne contro la caccia in Africa. Il caso della Namibia sembra confermare la teoria di Krug:

La Namibia ha aumentato il numero di animali compresi nella selvaggina, includendo alcune specie di antilopi e alcefali che possono essere cacciati e le cui carni possono essere distribuite dai supermarket locali. […] Ma le associazioni a difesa degli animali come la Born Free Foundation respingono la teoria della caccia su basi “etiche”. Secondo loro, molti cacciatori che iniziano con le gazzelle finiscono poi per cacciare i predatori, spesso illegalmente. E il denaro non arriva ai locali: buona parte degli introiti finisce all’estero.

E sempre dall’estero arrivano ogni anno centinaia di turisti interessati a compiere alcune battute di caccia per conquistare qualche trofeo. I safari di questo tipo generano un volume di affari che supera i 200 milioni di dollari ogni anno in Africa e le lobby per incentivare la caccia sono potenti e si confrontano spesso con gli ambientalisti, che cercano di convincere i governi a limitare il più possibile i permessi per i cacciatori.

Buona parte degli economisti che si sono occupati del problema ritengono che il modo migliore per preservare la biodiversità in Africa sia quello di migliorare riserve e parchi naturali. L’impresa non è però semplice: mantenere le riserve costa molto, i governi non hanno sufficienti risorse e l’apertura di nuovi parchi sembra essere fuori discussione. La soluzione potrebbe essere la privatizzazione di parte delle strutture, quelle che si occupano della sicurezza e della gestione dei turisti. L’African Parks Network, un ente non profit, si occupa già di alcuni parchi africani e il modello sembra funzionare. In molti casi si tratta semplicemente di riorganizzare le strutture interne, migliorare l’accessibilità alle diverse risorse e la promozione per attirare i turisti. E poi ci sono gli investitori privati, come il magnate Nicky Oppenheimer, presidente e maggiore azionista di DeBeers, la multinazionale dei diamanti.

Un esempio spettacolare di generosità di un singolo è quello di Tswalu, la più grande riserva naturale privata del Sudafrica. Si trova nel deserto di Kalahari, verso il Botswana. È un’area aspra e dal panorama magnifico, con tinte che virano dal giallo al grigio. Le temperature vanno spesso sotto zero d’inverno. L’acqua è scarsa. Qualche ambientalista potrebbe storcere il naso per la pista in cemento del piccolo aeroporto o per l’elettrodotto che attraversa la proprietà. Ma questo trascura la cosa più importante: 43 fattorie riunite in un’area ampia 100mila ettari e dedicata alla conservazione degli animali selvatici. «Il nostro scopo è quello di riportare il Kalahari alle sue origini» spiega Oppenheimer.

Prima dell’istituzione della riserva, i coltivatori avevano ucciso praticamente qualsiasi cosa che avesse zanne e artigli. Ripopolare il parco richiederà tempo e molte risorse economiche. Per appianare i conti, ogni anno Oppenheimer deve spendere diversi milioni di dollari e non è detto che le sistemazioni di lusso previste nel parco, con notti che possono costare fino a 850 dollari, consentiranno di arrivare un giorno all’attivo. Nella zona sono state costruite anche strutture sanitarie, e secondo i responsabili della riserva i livelli di analfabetismo e il problema dell’alcolismo tra le popolazioni locali stanno iniziando a ridursi.

Il caso di Oppenheimer è però isolato e all’orizzonte non si vedono molti altri multimiliardari disposti a spendere qualche soldo per le riserve naturali africane. Le iniziative delle singole comunità locali potrebbero sopperire a questa mancanza. In Sudafrica il governo ha permesso ai contadini di possedere animali selvatici sulle loro terre. Hanno il diritto di vendere gli esemplari e i loro piccoli, possono accettare denaro dai turisti e se si occupano anche dei rinoceronti ricevono forti sgravi fiscali. Un modello simile adottato da tempo in Namibia ha permesso di aumentare il numero di animali selvatici del 60% circa rispetto agli anni Sessanta.

Infine, una risorsa importante è il turismo e la possibilità di puntare sui safari di lusso. Una notte nella riserva di Selinda, Botswana, arriva a costare 1.400 dollari, senza contare il costo per il viaggio con il piccolo aereo da turismo per raggiungere la zona. In altre aree dell’Africa esperienze simili non vengono però replicate a causa dell’instabilità politica dei governi o a causa dei problemi di sicurezza e delle lotte tribali. Sulla carta esistono riserve e centri per la conservazione degli animali selvatici, ma nella pratica le attività sono spesso ridotte al minimo a causa dei conflitti regionali, che naturalmente disincentivano anche il turismo.

Chi si batte per la conservazione degli ambienti e degli ecosistemi in Africa ricorda che l’impegno di oggi servirà per quelli che non sono ancora nati, per le prossime generazioni. La speranza è quella di lasciare un rinoceronte bianco nel loro futuro.